Francesco Farri
 Avvocato in Arezzo e Professore associato di Diritto Finanziario
Università degli Studi di Genova

Sommario: 1. Il potenziamento degli Uffici per il processo nell’ambito del PNRR – 2. La rilevanza del comparto Giustizia nel PNRR – 3. Il lacunoso approccio del PNRR ai bisogni economici della Giustizia in Italia – 4. La presumibile inefficienza degli Uffici per il processo rispetto al fine di risolvere il problema della lentezza della Giustizia in Italia – 4.1 L’omessa considerazione del problema delle strutturali carenze di organico dei tribunali – 4.2 I difetti intrinseci degli Uffici per il processo – 4.3. Le possibili alternative per l’utilizzo dei fondi ‒ 5. L’indesiderabile stravolgimento della funzione giudicante che si collega agli Uffici per il processo – 6. Conclusioni.

 

  1. Il potenziamento degli Uffici per il processo nell’ambito del PNRR

 

L’Ufficio per il processo (UPP) è un istituto giuridico previsto dall’ordinamento italiano da circa dieci anni (cfr. art. 16 -octies del d.l. n. 179/2012) e che ha vissuto, negli ultimi mesi, una importante rivitalizzazione per effetto del PNRR.

Infatti, una parte delle somme del Piano è stata destinata al comparto Giustizia e la maggior parte di queste somme stanziate per il comparto Giustizia sono state destinate al potenziamento degli UPP.

L’esame dell’UPP in una prospettiva di finanza pubblica richiede, dunque, una riflessione che guardi alle ragioni per le quali il settore Giustizia ha meritato la destinazione di risorse in sede di PNRR e all’efficienza della destinazione che di queste somme è stata fatta.

 

  1. La rilevanza del comparto Giustizia nel PNRR

 

Sotto il primo profilo, si può agevolmente osservare che la Giustizia è un settore chiave, non solo sul piano assiologico in quanto attiene ai diritti fondamentali dei cittadini, ma anche sul piano economico, perché incide sulla competitività del Paese. L’incertezza e l’inefficienza del sistema giudiziario rappresentano, infatti, fra le principali ragioni che scoraggiano i possibili investimenti privati – anche stranieri – in Italia, venendo così a costituire un decisivo fattore di freno per la crescita economica del Paese[1].

Per questo motivo, il comparto Giustizia ha avuto pieno titolo a partecipare allo stanziamento di somme previsto dal PNRR.

Come noto, infatti, tale piano ha avuto e ha la funzione di “promuovere una robusta ripresa dell’economia europea” a seguito della pandemia e, in conformità con i regolamenti europei, ha dovuto concentrarsi su sei pilastri fondamentali (Transizione verde; Trasformazione digitale; Crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; Coesione sociale e territoriale; Salute e resilienza economica, sociale e istituzionale; Politiche per le nuove generazioni, l’infanzia e i giovani). Per almeno tre di questi pilastri (la trasformazione digitale, la coesione sociale e la resilienza sociale e istituzionale) il comparto Giustizia risulta fondamentale.

 

  1. Il lacunoso approccio del PNRR ai bisogni economici della Giustizia in Italia

 

Acclarato che si tratta di un settore chiave, occorre valutare se le somme stanziate siano state destinate in maniera efficiente. A tal fine, occorre individuare quali siano i principali problemi del settore e se le soluzioni fornite siano coerenti con la risoluzione degli stessi.

Possiamo accorpare in tre aree i problemi che affliggono il sistema della Giustizia in Italia:

  1. problemi strutturali, che attengono all’ordinamento della Giustizia nel suo complesso: si tratta di quelle che vanno al cuore del potere giudiziario con il fine di minimizzare il rischio che si ripetano vicende simili agli scandali degli ultimi anni;
  2. problemi tecnico-processuali, che riguardano la funzionalità dei riti e degli adempimenti processuali;
  3. problemi strumentali, che attengono all’adeguatezza dei mezzi ai fini, cioè dei mezzi di cui è dotato l’apparato della Giustizia per fare effettivamente funzionare il sistema processuale delineato dai codici.

Le prime due tipologie di problemi si risolvono, generalmente, con riforme a costo zero, mentre è il terzo ambito quello che attiene al versante economico-finanziario.

Essendo il PNRR un documento di carattere essenzialmente economico-finanziario, e non un programma di Governo, esso avrebbe dovuto concentrarsi su quest’ultimo capitolo, ossia quello delle riforme da finanziarie volte a risolvere i problemi di dotazione dell’amministrazione della Giustizia dei mezzi strumentali necessari a raggiungere i fini assegnati dalla legge. Invece, scorrendo le pagine dedicate alla Giustizia, il grosso dell’elaborazione sembra dedicato alle altre due tipologie di problematiche, che attualmente si stanno traducendo sul piano normativo nella riforma Cartabia del processo penale e del processo civile, del CSM e negli altri progetti di riforma come ad esempio quello della giustizia tributaria.

Sembra non essersi pienamente compreso, in altre parole, che ciò che era richiesto in questa fase era una riflessione sui mezzi e sugli strumenti di cui sono dotati i Tribunali in Italia, non il tracciamento di un programma più o meno vago di riforme processuali e ordinamentali, materie che d’altronde secondo i Trattati esulano dalle competenze dell’Unione Europea che ha fornito i fondi.

Così, da un lato, il PNRR ha individuato il principale problema della Giustizia in Italia nella lentezza e scarsa informatizzazione dell’apparato. «Il sistema della giustizia italiana, caratterizzato da solide garanzie di autonomia e di indipendenza e da un alto profilo di professionalità dei magistrati, soffre di un fondamentale problema: quello dei tempi della celebrazione dei processi» (p. 58). «La lentezza dei processi, seppur ridottasi, è ancora eccessiva e deve essere maggiormente contenuta con interventi di riforma processuale e ordinamentale. A questi fini è necessario anche potenziare le risorse umane e le dotazioni strumentali e tecnologiche dell’intero sistema giudiziario» (p. 48). Dall’altro lato, ha ritenuto che il “fattore tempo” debba essere affrontato anzitutto tramite riforme tecnico-processuali, e quindi tendenzialmente a costo zero. Ciò probabilmente senza conferire sufficiente attenzione al dato per cui nessuna riforma tecnico-processuale, per quanto ben congegnata, funziona se la sua attuazione non viene demandata a un apparato di uomini e mezzi adeguato.

Da ciò sono discese almeno tre conseguenze rilevanti.

In primo luogo, si sono trascurate altre esigenze del comparto Giustizia che, invece, avrebbe richiesto di essere finanziate. Si pensi, solo per fare un esempio, all’esecuzione penale. Che esso attenga al versante dalla coesione sociale, ossia a uno dei pilastri del NGEU a livello europeo e del PNRR a livello nazionale, è obiettivamente incontestabile. Che il versante dell’esecuzione penale richieda interventi onerosi appare altrettanto incontestabile. L’occasione del Piano di ripresa avrebbe dovuto essere utilizzata anche e specificamente per rendere l’esecuzione della pena conforme ai principi costituzionali e sovranazionali[2] e per realizzare appieno quella funzione rieducativa della pena richiesta dalla Costituzione. Eppure, tranne il finanziamento di centri e mediatori per la giustizia riparativa (con appena 4 milioni), non si è pensato all’acquisto di braccialetti elettronici, all’incremento di percorsi efficaci di rieducazione e reinserimento al lavoro, né alla costruzione di nuovi istituti penitenziari.

In secondo luogo, la constatazione che anche in quello che è essenzialmente l’unico campo economicamente rilevante preso in considerazione dal PNRR – ossia la lentezza dei processi – il problema sia stato ritenuto affrontabile prima di tutto sul piano della tecnica processuale ha condotto a una sottovalutazione dell’impegno economico necessario per farvi fronte. Così, le somme destinate al comparto giustizia nell’ambito del piano risultano relativamente ridotte: 2,3 miliardi, ossia appena l’1% del totale dei fondi, che viene indicato dal Governo in 222 miliardi.

Infine, la convenzione che il “fattore tempo” debba essere affrontato anzitutto tramite riforme tecnico-processuali ha fatto sì che la riflessione dedicata alla destinazione delle pur poche somme stanziate non sia stata altrettanto ampia – almeno a giudicare dal numero di pagine dedicate nel piano – rispetto a quella dedicata al programma governativo sulle riforme strutturali e tecnico-processuali. Così, le risorse stanziate per il comparto giustizia sono state destinate pressoché esclusivamente alla creazione degli “uffici per il processo” (p. 96: «Investimento in capitale umano per rafforzare l’Ufficio del Processo e superare le disparità tra tribunali»), da intendersi come «un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio», quali «ricerca, studio, monitoraggio, gestione del ruolo, preparazione di bozze di provvedimenti» (pp. 62-64).

Niente di specifico, in altre parole, si è dedicato ad esempio alla digitalizzazione dei tribunali. Il piano prende in esame l’aspetto (p. 70), che specialmente per il comparto penale risulta di centrale importanza, ma nel momento dell’individuazione della destinazione delle risorse non dedica a ciò alcuno specifico stanziamento (p. 96), se non un rinvio generico ai fondi stanziati per la digitalizzazione della p.a. in generale (pag. 105). Da ciò sono discese conseguenze paradossali come, ad esempio, quella per cui il piano per la transizione digitale dell’amministrazione della giustizia penale (art. 2, commi 18 ss. della legge delega per la riforma della giustizia penale, n. 134/2021) è stato concepito senza coperture, cioè da realizzarsi «nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». L’art. 2, comma 22 della legge delega, infatti, prevede espressamente che dall’attuazione della legge e dei decreti legislativi da essa previsti «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», salvo qualcosa attinente alla giustizia riparativa e – appunto – salvo quanto necessario per «l’attuazione delle disposizioni in materia di ufficio per il processo penale».

Lo stesso dicasi per la legge delega per la riforma del processo civile, n. 206/2021, la quale, al comma 38, prevede stanziamenti soltanto per l’aumento delle agevolazioni fiscali per la mediazione e – appunto – per l’implementazione degli Uffici per il processo.

 

  1. La presumibile inefficienza degli Uffici per il processo rispetto al fine di risolvere il problema della lentezza della Giustizia in Italia

 

Si prendano, tuttavia, le mosse dalle premesse del PNRR, ossia che il problema della digitalizzazione dei Tribunali deve essere trattato unitariamente al resto della p.a. e che il principale problema della Giustizia in prospettiva economicamente valutabile sia la lentezza dei processi senza considerare altri versanti come, ad esempio, l’esecuzione penale. Date queste premesse, si tratta di valutare se il principale intervento promosso dal PNRR nel comparto giustizia, ossia il potenziamento degli UPP, sia idoneo ad affrontare efficacemente il problema per il quale esso è stato finanziato, ossia – come si è detto – la lentezza dei processi, l’accumulo di arretrati e la scarsa informatizzazione della macchina della Giustizia.

Per compiere questa valutazione occorre individuare le cause del problema che si intende risolvere e valutare se le soluzioni proposte sono idonee a rimuoverle. In questa prospettiva, è possibile concludere che probabilmente il potenziamento degli Uffici per il processo non è stata la soluzione migliore.

 

4.1 L’omessa considerazione del problema delle strutturali carenze di organico dei tribunali

 

Dall’esame dei dati, risulta che gli organici dei Tribunali italiani sono grandemente sottostimati rispetto alle esigenze della popolazione. Questo dato appare all’evidenza idoneo a incidere sulla lentezza dei processi e sull’accumulo di arretrato. Era, dunque, anzitutto su questo aspetto che doveva agire il PNRR per affrontare i problemi di mezzi strumentali che affliggono la giustizia in Italia e che hanno incidenza diretta sul problema, la lentezza dei processi, che il PNRR si proponeva di affrontare e risolvere. Eppure, niente di rilevante è stato fatto sul punto.

La Commissione per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa – Cepej ‒ nel rapporto European judicial systems. Efficiency and quality of justice del settembre 2020, con dati riferiti all’anno 2018[3], rileva (p. 48) che in Italia sono presenti circa 11,6 giudici ogni 100.000 abitanti, cioè appena la metà della media europea (21,4) e grandemente inferiore rispetto alla mediana (17,7), comprensiva dei Paesi non membri UE (ad es. i Paesi dell’ex URSS da una parte, e dall’altra parte i Paesi di common law, ove il ruolo sociale del giudice è ben diverso, come dimostrato dal salario che a essi viene riconosciuto, quasi quadruplo rispetto alla media, ivi, pag. 67 del rapporto 2020 e p. 123 del rapporto 2018).

Le stesse carenze strutturali riguardano il personale ausiliario, essenzialmente cancellieri e ufficiali giudiziari. Il rapporto Cepej 2018, alla p. 163, evidenzia come in Italia sono presenti appena 35 ausiliari ogni centomila abitanti, ossia ancora una volta circa la metà rispetto alla media europea (68,7) e comunque molti meno rispetto alla mediana europea (55,2). Il rapporto Cepej 2020 non risulta riprodurre un dato analitico sul punto,

Ancor più gravi le carenze dal lato delle Procure. Il rapporto Cepej 2020, European judicial systems. Efficiency and quality of justice, n. 26, 2018, p. 131, rileva per l’Italia 3,7 procuratori ogni centomila abitanti a fronte di una media di 12,13. Nel rapporto Cepej 2018 si evidenziava altresì come ciò si traducesse tra l’altro in un eccesso di casi affidati a ciascuno (1.737 a fronte della media europea di 578), dato peggiore in Europa se si eccettuava quello della Francia (ove però non vige l’obbligo di esercizio dell’azione penale, secondo il principio della opportunité des poursuites, di cui all’art. 40-1 del Code de Procédure Pénale), mentre non risulta che il rapporto 2020 specifichi analoga tipologia di dato. La possibile incidenza sul tasso di prescrizione dei reati di un dato del genere appare evidente.

A fronte di ciò, il Piano a p. 60 riconosce che «un incremento del numero dei magistrati e degli operatori del settore giustizia costituisce un fattore indispensabile, ancorché non sufficiente, per il conseguimento degli obiettivi», ma a tal fine non contiene alcuna misura aggiuntiva rispetto a quelle ordinarie, già previste a regime a prescindere dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, idonee a garantire nella sostanza l’annuale ricambio generazionale rispetto ai pensionamenti. In particolare, il Piano (p. 60) afferma che già sarebbero in atto sufficienti piani d’intervento per l’aumento del personale magistratuale e di cancelleria, ma non dà conto che i numeri di incremento di magistrati che esso prospetta (“600 unità”) corrispondono all’ordinario innesto di nuovi magistrati che avviene in due annualità (circa 300 per anno), e che – come lo stesso Piano ricorda – il concorso bandito nel 2019 non si è tenuto causa Covid.

In sintesi, il PNRR ha sostanzialmente omesso di confrontarsi con la prima, e più evidente, causa del problema che intendeva risolvere. E questo naturalmente non è un indice di efficienza nella decisione di allocazione delle somme a disposizione. In questa prospettiva, la constatazione che nella maggior parte degli ordinamenti stranieri che si ritengono più efficienti di quello italiano è presente un ufficio per il processo non risulta, all’evidenza, dirimente: infatti, se in tali Paesi la Giustizia è dotata di mezzi strumentali e di personale di ruolo come giudici e cancellieri superiori e più adeguati rispetto a quelli italiani, è ragionevole ritenere che sia questo il fattore che determina la maggiore efficienza del comparto Giustizia, non la mera presenza di un ufficio per il processo.

 

4.2 I difetti intrinseci degli Uffici per il processo

 

Per come è congegnato, inoltre, l’Ufficio per il processo italiano non appare idoneo a risolvere il problema della lentezza dei giudizi, né tanto meno a risolvere in modo stabile il problema dell’arretrato.

Di ciò lo stesso Piano sembra in qualche misura rendersi conto nella misura in cui concepisce gli Uffici per il processo come misura straordinaria per far fronte allo smaltimento dell’arretrato, senza garanzia di stabilizzazione dei medesimi (che sarà assicurata soltanto «se possibile», p. 63). Sennonché, se l’arretrato si è formato, l’assenza di interventi strutturali sulle cause che hanno contribuito a produrlo, come in particolare le carenze di organico, rendono del tutto logico ritenere che, quand’anche l’arretrato a oggi venga per ipotesi azzerato grazie agli UPP, esso di nuovo inizierà a formarsi nel momento in cui cessi la misura temporanea di potenziamento degli UPP stessi, se non vengono a regime aumentati i mezzi, in particolare il personale, di cui è dotata l’amministrazione della giustizia.

Al riguardo, è appena il caso di osservare che le assunzioni a tempo indeterminato di una parte di membri destinato agli UPP si sostituisce a immissioni già previste nei tribunali per le ordinarie funzioni di cancelleria. Invero, tanto il comma 28 della legge delega per la riforma della giustizia penale n. 134/2021, quanto il comma 41 della legge delega per la riforma della giustizia civile n. 206/2021, prevedono che il finanziamento dei nuovi contratti di assunzione a tempo indeterminato per l’immissione negli uffici del processo (che costituiscono una minima parte del personale assunto a tal fine, che invece avrà contratti a tempo determinato) avverrà riducendo l’autorizzazione di spesa e le previsioni di assunzioni di cui all’articolo 1, comma 860, della l. n. 178/2020, ove appunto già si prevedeva l’immissione in ruolo di personale da destinarsi alle cancellerie. Numeri alla mano, l’unica differenza è che fatti tutti i conteggi il numero complessivo delle assunzioni a tempo indeterminato diminuirà (269 in meno) e che la spesa continuerà ad essere la stessa (poiché tutti i nuovi immessi a tempo indeterminato negli UPP saranno classificati in area III collaboratori e non anche in area II coadiutori).

Inoltre, è dubbio anche che gli UPP sia idonei allo stesso fine transitorio di smaltire l’arretrato a oggi accumulato dai tribunali e dalle corti superiori. Infatti, essi sono formati per la massima parte da giovani inesperti della pratica della giustizia e, naturalmente, non sono abilitati a emettere decisioni in sostituzione dei giudici. Per cui, se i giudici e i cancellieri attualmente in funzione sono oberati per le ragioni di sottodimensionamento sopra evidenziate, è improbabile che essi dispongano del tempo necessario, da una parte, per formare i giovani membri degli UPP e, dall’altra parte, per prendere in carico le pratiche che gli UPP iniziano a istruire ma che i giudici, in ogni caso, devono conoscere e valutare personalmente prima di decidere (ci mancherebbe altro). Il problema della formazione, inoltre, è acuito dal fatto che non sempre i profili selezionati per gli Uffici per il processo sono idonei alle esigenze dell’amministrazione della Giustizia (si pensi ai posti assegnati ai laureati in scienze politiche o equiparati) ed è, inoltre, aggravato dalla circostanza che il ricambio di personale tra gli addetti all’ufficio per il processo è stato fin dai primi mesi frequente e molto rapido. Infatti, i giovani che hanno fatto domanda sono ben consapevoli del carattere temporaneo del loro impiego, sicché nonostante la significativa retribuzione sono sovente propensi a lasciare l’ufficio non appena rinvengono occasioni lavorative maggiormente stabili. Così, si apre uno scenario in cui giudici e cancellieri siano chiamati a dedicare a più riprese tempo alla formazione del personale dell’UPP, ogni volta dovendo ripartire pressoché integralmente da capo sia sul piano dei contenuti, sia sul piano della gestione dei rapporti umani che, come si sa, risulta anch’esso essenziale in caso di lavoro in equipe.

Sotto altro profilo, il temporaneo potenziamento degli UPP risulta temporalmente sfasato rispetto all’entrata in funzione dei 600 nuovi giudici di cui parla in PNRR (e che peraltro si sono visti corrispondere essenzialmente all’ordinario ricambio generazionale). Per loro, infatti, la presa di servizio dopo l’uditorato avverrà più o meno contestualmente alla conclusione dei contratti dei giovani membri dell’UPP.

 

4.3 Le possibili alternative per l’utilizzo dei fondi

 

Si potrebbe obiettare che la sopra manifestata esigenza di incrementare stabilmente l’organico magistratuale e di cancelleria non sarebbe stata realizzabile tramite i fondi del PNRR, caratterizzati da intrinseca temporaneità di utilizzo.

Sennonché, sarebbe stata concepibile la creazione di un fondo per stanziamenti a lungo termine e, in questa prospettiva, con i 2,3 miliardi destinati al temporaneo potenziamento degli UPP sarebbe stato presumibilmente possibile garantire la copertura degli stipendi per un’intera carriera di circa 400/500 nuovi magistrati. Rifacendosi ai dati del rapporto Cepej 2018, che quantificano in 56.000 Euro lo stipendio lordo di un magistrato di prima nomina e in 187.000 lo stipendio lordo di un magistrato di Cassazione; ipotizzando una carriera di quarant’anni; e approssimando le progressioni di stipendio come imputazione di uno stipendio di 56.000 per vent’anni e di uno stipendio di 187.000 per altri vent’anni (sebbene in verità molti magistrati mai raggiungano tale fascia stipendiale); si ottiene che la carriera di un magistrato costa allo Stato approssimativamente 5 milioni di Euro. Il rapporto Cepej 2020 non riporta analoghi dati in valore assoluto, ma sembra possibile assumere tale importo come base di un calcolo ragionevole, ancorché approssimato. Sulla base di ciò, è possibile affermare che, con i 2,3 miliardi di Euro stanziati dal PNRR, sarebbe stato possibile garantire gli stipendi per l’intera carriera di oltre 450 magistrati. Numeri ancora maggiori se ripartiti tra personale giudicante e di cancelleria.

Né si dica, al riguardo, che l’utilizzo dei fondi del PNRR precludeva la stipula di contratti a tempo indeterminato. Sebbene tale spiegazione sia diffusa, specialmente a livello ministeriale, non risulta che alcuna fonte normativa di livello europeo contenga preclusioni in tal senso. Così, il vincolo all’utilizzo delle somme nell’arco di tempo di durata del piano e il carattere temporaneo del piano stesso non avrebbe precluso, con i dovuti strumenti contabili, di accantonare le somme per la stipula di contratti a tempo indeterminato, quando il raggiungimento degli obiettivi del piano e degli obiettivi delineati a livello europeo rendesse necessaria l’adozione di una forma di investimento di questo genere e a condizione, naturalmente, che i rapporti lavorativi di cui si discute fossero avviati durante il periodo di operatività del piano.

Ad ogni modo, anche a opinare diversamente, ossia ritenendo che il carattere temporaneo del piano avesse richiesto l’immediata spesa degli interi importi stanziati nel solo arco temporale previsto dal PNRR, per smaltire l’arretrato pregresso senza preoccuparsi di creare una situazione futura che limitasse i rischi di nuovi accumuli, sarebbe stato più razionale incentivare economicamente la permanenza in servizio per alcuni anni di magistrati e cancellieri pensionabili, ferme ovviamente restando le nuove assunzioni a regime. Non sarebbe così mancata quell’esperienza che, invece, intrinsecamente caratterizza il personale immesso negli UPP. Si tratta, del resto, di un sistema già sperimentato per la sezione tributaria della Corte di cassazione, in seno alla quale ha prodotto risultati apprezzabili anche e specificamente in punto di riduzione dell’arretrato. Si sarebbe evitata, altresì, la moltiplicazione dei tempi dedicati alla formazione causata dalle frequenti dimissioni degli addetti che trovano nel frattempo impieghi più stabili.

Vero è che, come detto, l’implementazione degli UPP fornisce occupazione tendenzialmente ai giovani e, in questo, ha una funzione sociale aggiuntiva che gli incentivi alla permanenza a lavoro non hanno. Si tratta, tuttavia, di una esternalità positiva che non ha manifesta diretta attinenza con il fine per cui l’istituto viene utilizzato e che, pertanto, non dovrebbe avere rilevanza dirimente nella valutazione di efficienza dell’investimento che si deve compiere. Sotto altro profilo, pare evidente che non debbano essere i comparti ad alta sensibilità istituzionale e sociale e ad alto tasso di specializzazione quelli da sfruttare per l’introduzione di misure mosse dalla finalità di contrasto alla disoccupazione giovanile.

In ogni caso, poi, si tratterebbe pur sempre di una esternalità positiva avente carattere transitorio, poiché concluso il periodo temporaneo di durata del contratto a tempo determinato i problemi occupazionali si porrebbero nuovamente e non sarebbero risolti dagli eventuali punteggi ulteriori concessi agli ex membri di UPP ai fini dei concorsi pubblici e dei periodi di praticantato (art. 11, c. 4 del d.l. n. 80/2011).

In altre parole, con i fondi del PNRR i giovani avrebbero meritato di più di quanto è stato loro accordato con il potenziamento degli UPP: avrebbero meritato più posti di ruolo nelle file dell’amministrazione della Giustizia, come magistrati o come cancellieri e segretari.

 

  1. L’indesiderabile stravolgimento della funzione giudicante che si collega agli Uffici per il processo

 

Sembra, pertanto, possibile concludere che il potenziamento degli UPP non sia misura del tutto idonea a conseguire in modo efficiente le finalità per le quali essa è stata finanziata.

A questo deve aggiungersi che, sul piano istituzionale, il potenziamento degli UPP sembra andare in una direzione non del tutto neutrale rispetto al ruolo del giudice.

Il giudice comune deve trattare molte questioni e confrontare costantemente i fatti con il diritto; non deve concentrarsi su poche questioni della massima importanza giuridica, spesso scisse rispetto alla ricostruzione fattuale o processuale, come avviene ad esempio per i giudici costituzionali o delle corti sovranazionali, per i quali l’ufficio processuale concettualmente nasce e si manifesta come strumento appropriato.

Ciò che serve ai giudici non è tanto un ufficio di studiosi o tirocinanti cui far svolgere ricerche giurisprudenziali, o cui affidare un primo esame dei fascicoli: è potersi concentrare personalmente su tali attività con serietà e serenità, in modo tale da emettere decisioni destinate a essere confermate negli eventuali successivi gradi di giudizio (un criterio di resistenza purtroppo attualmente estraneo ai criteri di valutazione dei magistrati).

Al contrario, la scelta di potenziare l’Ufficio per il processo anche per i giudici comuni sembra andare nella direzione di sezionare l’attività giudicante in più tronconi separati che soltanto nella fase finale dovrebbero trovare la sintesi da parte del giudicante.

Invece, nell’attività del giudice la riconduzione in capo a una stessa persona di tutte le fasi dell’attività decisoria ‒ esame del fatto, applicazione del diritto al fatto, motivazione dei provvedimenti – deve considerarsi fondamentale per la giustizia sostanziale delle decisioni, e costituisce la base del proficuo confronto con i colleghi nei casi in cui l’ordinamento richieda la decisione collegiale. Così, il giudice comune non dovrebbe trasformarsi nel supervisore dell’attività di giovani collaboratori, cui delegare tronconi della propria attività ‒ a un componente dello staff l’istruttoria, a un altro la ricerca giuridica, a un altro ancora la scrittura della bozza del provvedimento ‒ per poi compiere la sintesi finale.

Ciò appare evidente per la giustizia penale, dove il principio dell’immediatezza assume rilievo centrale, ma lo è nondimeno per la giustizia civile. Compartimentalizzare le varie attività per affidarle a diverse persone, e riservare al giudice un ruolo di sintesi equivale a scollegare le fasi del sillogismo giudiziario, a comprometterne logicità e attendibilità, a complicare la percezione complessiva della causa su cui dovrebbe basarsi la pronuncia di giustizia, e in definitiva a mettere in discussione le radici del basilare principio che ispira l’attività giudiziaria, riassunto da secoli dal brocardo “narra mihi factum dabo tibi ius”.

Né sembra necessario l’Ufficio per il processo per liberare il giudice dagli incombenti che sono stati definiti “mangia-tempo”, come «dagli oneri di organizzazione, di monitoraggio continuo delle istanze, di gestione in senso stretto»[4]. Per essi, infatti, è sufficiente la cancelleria. D’altronde, si osserva che l’accollo ai giudici di tali incombenti “mangia-tempo” dipende dalla “mancanza cronica di risorse”: per cui sono tali risorse a dover essere rimpinguate, non nuove strutture a cui affidare compiti ibridi che non attengono soltanto agli adempimenti segretariali, che dovrebbero per definizione pertenere alla cancelleria, ma anche a veri e propri tronconi dell’attività giudicante, come spiegato dal d.l. n. 80/2021 e dalle leggi delega per la riforma dei sistemi giudiziari civile e penale. Invero, sia l’art. 1, c. 26, lett. b), n. 1) della l. n. 134/2021 per la riforma del processo penale, sia l’art. 1, c. 18, lett. b), n. 1) della l. n. 206/2021 per la riforma del processo civile assegnano ai funzionari dell’Ufficio per il processo i compiti di studio del fascicolo, di preparazione delle udienze, di approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e di elaborazione delle minute dei provvedimenti.

Ora, è lecito dubitare che tali attività debbano considerarsi “mangia-tempo” per un magistrato. Il magistrato deve studiare il fascicolo personalmente, non limitarsi a farselo raccontare da un giovane neo-laureato che, per sua natura, di regola non è in grado di cogliere le questioni fattuali e giuridiche rilevanti per la decisione.

Lo stesso dicasi per le ricerche giurisprudenziali, le quali implicano una previa corretta identificazione delle questioni giuridiche rilevanti che, di norma, richiede l’esperienza di un giurista maturo per poter essere affrontata in modo adeguato al fine di rendere giustizia, senza contare che anche risolto il problema dell’individuazione delle questioni e impostazione della ricerca la corretta comprensione dei contenuti giurisprudenziali nei casi controversi non risulta sempre agevole per giovani neo-laureati.

Sotto altro profilo, i mezzi informatici fanno sì che la redazione dell’intestazione dei provvedimenti sia ormai una questione di pochi istanti, mentre se per redazione della minuta dei provvedimenti deve intendersi un quid pluris risulta evidente come essa non possa che permanere nelle prerogative della persona chiamata a decidere.

Almeno per quanto attiene ai giudizi di merito, poi, ciò vale senz’altro anche per quella parte del provvedimento che riguarda la ricostruzione del fatto, posto che essa ha carattere delicatissimo anche in vista del possibile controllo di legittimità garantito dalla Costituzione e per il quale, come noto e salvo casi eccezionali, il fatto come ricostruito dai giudici di merito rimane insindacabile.

Per i giudizi di legittimità, poi, i protocolli d’intesa con il CNF dovrebbero assicurare che già le parti forniscano la sintesi dei motivi necessaria al fine di redigere la parte meramente rappresentativa della decisione, prendendo in certa misura il posto di quel quesito di diritto (art. 366-bis c.p.c.), che buoni risultati poteva produrre anche sul piano dell’efficienza della decisione, oltre che su quello della chiarezza degli atti e delle richieste, se non fosse stato prematuramente abrogato dopo appena tre anni dalla sua introduzione. Il rischio è che, delegando tali aspetti a giovani funzionari, il tempo che il giudice scrupoloso e consapevole della delicatezza del proprio ruolo deve impiegare per il necessario controllo della loro attività sia superiore al risparmio che avrebbe svolgendole direttamente di persona.

Neppure pare essere l’Ufficio per il processo l’istituto giuridico appropriato per soddisfare le esigenze, talora espresse, che il giudice abbia di persone con cui confrontarsi per la soluzione dei casi che gli sono affidati. Nei gradi di giudizio successivi al primo vige infatti una regola di collegialità della formazione dell’organo giudicante che già soddisfa questa esigenza, mentre nei primi gradi da anni l’ordinamento processuale tende a svilire il ruolo della collegialità riducendone gli ambiti applicativi a favore della composizione monocratica.

Se l’esigenza di confronto si pone, la soluzione è dunque recuperare spazio alla collegialità inter pares, non affidarsi al confronto con giovani neolaureati o comunque inesperti, per quanto motivati e volenterosi. Ciò non sembra giovare né alla qualità della decisione, né conseguentemente al rafforzamento della legittimazione sociale del settore Giustizia in Italia.

Per altro verso, per alcune attività giudicanti meramente seriali i tempi appaiono giù maturi per una piena automatizzazione: si pensi all’emissione di decreti ingiuntivi richiesti per mancato pagamento di fatture, in un’epoca di fatture digitali in cui tutti i dati risultano già informatizzati.

In altre parole, dietro al potenziamento degli Uffici per il processo sembra vi sia una surrettizia ma profonda “revisione” del ruolo del giudice che non può essere condivisa e tanto meno può essere condivisa in un contesto, come quello attuale, che guarda a un futuro in cui la digitalizzazione metterà a disposizione strumenti, non solo di ricerca, ma anche decisionali che richiederanno nelle ipotesi di intervento di un giudice “umano” di valorizzare ancor di più la specificità della capacità giudicante propria dell’uomo, in quanto suscettibile di visione e sintesi unitaria, rispetto a quella robotizzata, per sua natura asettica e compartimentalizzata e appropriata per fattispecie seriali che già allo stato attuale probabilmente non rendono indispensabile l’intervento dell’uomo.

Si potrebbe osservare, anzi, che la funzione degli Uffici per il processo di organizzare banche dati dettagliate della giurisprudenza di merito, ricostruendo una casistica più possibile capillare delle soluzioni conferite alle varie tipologie di fatti concreti, può costituire il primo tassello per la creazione di un sistema automatizzato di decisioni giudiziarie che va ben oltre le ipotesi sopra indicate di atti seriali per avvicinarsi, piuttosto e potenzialmente, a un modello già sviluppato in Cina e sulla cui idoneità a soddisfare le esigenze di giustizia è lecito nutrice più di un dubbio.

 

  1. Conclusioni

 

Per tutti i motivi sopra esposti, alla domanda introduttiva del convegno, se cioè gli Uffici per il processo siano una vera opportunità di giustizia, non sembra scontato doversi dare risposta positiva.

 

[1] Cfr., tra i molti, Centro Studi Livatino, Recovery Fund e giustizia, 10 febbraio 2021, in https://bit.ly/3bI3GEY; Ufficio Parlamentare di Bilancio, L’efficienza della giustizia civile e la performance economica, 2016, par. 2; Banca Mondiale, Doing business. Enforcing contracts. How judicial efficiency supports freedom of contract, 2015.

[2] Cfr., ex multis, Corte Cost., n. 279/2013; CGUE, 8.1.2013, Torreggiani c. Italia.

[3] Rilevazioni analoghe nel precedente European judicial systems. Efficiency and quality of justice, n. 26, 2018, con dati riferiti all’anno 2016.

[4] M.G. Civinini, Il “nuovo ufficio per il processo” tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Quest. Giust., 2021.