Giovanni Russo  
Procuratore nazionale vicario antimafia e antiterrorismo

 

Sommario: 1. Introduzione ‒ 2. I motivi della diffusione della droga ‒ 3. Influenza della legislazione sulla diffusione degli stupefacenti ‒ 4. Policonsumo delle sostanze stupefacenti ‒ 5. La frammentazione funzionale del narcotraffico e della criminalità organizzata ‒ 6. Gli interventi della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo ‒ 7. Conclusioni.

 

Ringrazio, preliminarmente, il Centro Studi Livatino e i colleghi Airoma e Mantovano per avermi dato questa possibilità, cioè quella di esprimere qualche considerazione su un tema che ritengo molto importante. Confesso anch’io la mia laicità nell’approccio alla tematica, ma in un senso diverso rispetto a quello evocato dal prof. Vescovi, che mi ha preceduto. Affronterò, infatti, per rispetto alla mia area di competenza professionale, le problematiche connesse ai reati di droga soltanto dal punto di vista investigativo e del contrasto a chi utilizza le sostanze stupefacenti per fare affari, per farne un business criminale.

 

  1. Introduzione

 

Occorre partire da una, se pur brevissima, panoramica degli scenari nazionali (che sono, peraltro, strettamente connessi con gli orizzonti internazionali): questo ci permetterà di raggiungere un certo grado di conoscenza del fenomeno e, di conseguenza, di offrire una risposta alla domanda di fondo che aleggia in questo Convegno: gli elementi che scaturiscono dalle indagini penali inducono a confermare o a confutare l’assunto del pregevole libro che oggi presentiamo?

Un rapido sguardo al mercato delle sostanze stupefacenti permette di formulare una prima notazione: si è molto assottigliato il confine tra chi consuma e chi spaccia.

Accanto ai meccanismi della criminalità organizzata che prevedono, come vedremo, l’assegnazione di ruoli ben definiti e una strutturazione importante delle organizzazioni stesse, vi è un livello più “territoriale” che corrisponde alla parte visibile del fenomeno, quella che tutti noi ‒ come cittadini ‒ riusciamo a percepire per le strade quando ci imbattiamo in compravendite pressocché alla luce del sole.

Ebbene, i risultati delle indagini ci portano a cogliere questo avvicinamento delle figure coinvolte nel “negozio” criminale: il soggetto spacciatore spesso è anche un consumatore. O, meglio, il consumatore spesso diventa spacciatore per procurarsi la dose o per lucrare un guadagno da destinare all’acquisto di altre dosi o, in alcuni casi, per cercare di fare carriera, scalando le posizioni nella filiera dello spaccio.

Questa, a ben vedere, è una scelta che risulta funzionale alle logiche della criminalità organizzata: il clan ha interesse a utilizzare, per queste attività esposte sul territorio e, quindi, più indifese dal punto di vista dell’aggressione delle forze di polizia, soggetti che non sono intranei all’associazione per delinquere, né strettamente collegati alla parte alta della piramide dell’organizzazione criminale di tipo mafioso.

In altri termini, si realizza una sorta di outsourcing per cui agli stessi consumatori vengono affidate le mansioni di base: la distribuzione al dettaglio, il ruolo di vedetta nelle cosiddette “piazze di spaccio”, piccoli spostamenti di sostanze stupefacenti, ecc.

L’altro aspetto vantaggioso per l’organizzazione criminale è che si tratta di pedine sacrificabili, di soggetti che conoscono molto poco della architettura del clan e quindi, se finiscono arrestati, non possono rivelare nulla di significativamente compromettente per la tenuta del sodalizio.

L’ultima riflessione concerne il fatto che si tratta di soggetti già vulnerabili in partenza, che spesso non riescono neanche a rendersi conto del rischio di fronte al quale essi si pongono, una volta entrati in questo meccanismo: potranno essere fermati dalle forze di polizia e, se viene sequestrato il quantitativo di sostanza stupefacente loro assegnato per la vendita e per lo spaccio, dovranno rispondere a due padroni.

Da un lato, lo Stato li chiamerà a dare conto dell’aspetto penale del loro comportamento e, dall’altro, l’associazione criminale reclamerà l’estinzione del debito relativo alla sostanza stupefacente affidata e sequestrata.

Alla fine della espiazione della loro pena legale si troveranno gravati da un debito economico, o di altro tipo, che dovranno rifondere al clan di appartenenza: in altri termini, rimarranno purtroppo legati definitivamente a queste a logiche criminali (nonostante ogni pur impegnativo tentativo delle istituzioni di avviare meccanismi di riabilitazione sociale).

 

  1. I motivi della diffusione della droga

 

A questo punto occorrerebbe svolgere uno specifico ragionamento sulle motivazioni per cui il fenomeno della diffusione della droga nella società odierna ha avuto una vistosa evoluzione. La brevità del tempo a disposizione permette solo di sottolineare che, accanto alle tante ragioni di ordine economico e sociale, un ruolo rilevante è rappresentato dai cosiddetti influencer, che imperversano sui social media, alimentando addirittura una certa faciloneria nell’utilizzazione di vari tipi di droga. In alcuni casi siffatta visione è trasferita nei testi delle canzoni che piacciono di più e che rappresentano, in qualche modo, uno stile di vita da emulare attraverso ritmi musicali moderni che legano nel riconoscimento sociale.

Un altro aspetto da considerare nell’analizzare la diffusione delle droghe è riferibile a macro-dinamiche e richiama il concetto, già accennato in premessa e molto diffuso tra gli studiosi e gli esperti del settore, secondo cui la criminalità organizzata ha, da tempo, acquisito forti logiche di business.

Per comprendere questo assunto potremmo, ad esempio, prendere come riferimento la figura del manager. Il manager di un’azienda si occupa di “piazzare” il proprio prodotto con tutti i mezzi, ma cerca anche di capire se il suo prodotto “tira”, nel senso che deve verificare se esso incontri i desideri del mercato. Deve, inoltre, assicurare un rapporto di utilità economica tra i costi e i ricavi; deve, ancora, considerare la rischiosità connessa all’attività lavorativa.

Quando uno o più profili tra quelli appena illustrati divengono poco profittevoli, l’azienda deve orientare la produzione verso altri beni.

Ebbene, questo è quello che avviene normalmente anche per gli affari della criminalità organizzata.

Lo si è potuto notare in maniera diacronica, e quindi col passare del tempo, non solo con riferimento alle sostanze stupefacenti, che hanno visto lo straordinario accrescimento delle tipologie offerte sul mercato, fino alle nuovissime sostanze sintetiche e psicoattive. Si tenga presente che negli anni 1990 esistevano duecentotrenta sostanze stupefacenti attenzionate dagli organi mondiali della sanità e anche delle forze di polizia, anche se quelle più diffuse in realtà erano quattro-cinque, tra le quali l’oppio, l’eroina e la cocaina, mentre adesso siamo di fronte a un catalogo di migliaia di sostanze stupefacenti di varia origine, come ha già illustrato benissimo il prof. Vescovi nell’intervento precedente, ma anche, più in generale, nell’ambito delle commodities che un’azienda criminale è in grado di offrire. Come è noto, la droga è solo uno dei tanti beni che può fornire; si pensi, ad esempio, al danaro, prestato a tassi usurari, alla fornitura di servizi di guardiania o di manodopera, a servizi di smaltimento di sostanze nocive, ecc.

 

  1. Influenza della legislazione sulla diffusione degli stupefacenti

 

Anche l’intervento dei legislatori dei vari Paesi risulta tutt’altro che indifferente per la criminalità organizzata: quando, attraverso una norma di legge, un determinato comportamento viene penalizzato in maniera importante, ne risultano condizionate anche le scelte “economiche” della criminalità organizzata, attenta ad orientare i propri interessi verso obiettivi che massimizzino il profitto e minimizzino i pericoli di incappare nelle maglie degli investigatori.

Quando, ad esempio, il legislatore ha deciso che il contrabbando di sigarette doveva essere stroncato perché rappresentava una piaga sociale, al di là del danno economico che creava all’erario dello Stato e delle finanze europee, ha emanato una norma che ha attratto la competenza del reato di contrabbando organizzato verso il più incisivo sistema antimafia, affidandolo alle cure delle procure distrettuali antimafia e, di conseguenza, alla direzione nazionale antimafia, potenziando gli strumenti di contrasto verso questo settore.

Ebbene, quale è stata la risposta della criminalità organizzata? I gruppi contrabbandieri hanno ridotto la percentuale di “investimenti” in questo settore e hanno allocato risorse ed energie in altri Paesi, laddove non c’era una così elevata attenzione sul piano penalistico nei confronti di questo specifico ambito. E, sempre nel settore del contrabbando di TLE, è agevole riscontrare – in chiave comparativa tra i Paesi europei ‒che l’andamento su base annua di merce sequestrata, indicativa della diffusione del fenomeno, è direttamente proporzionale alla crescita dei valori di accise statali imposte: quando (o dove) sulle sigarette grava una tassazione rilevante, allora si registrano grandi flussi di TLE di contrabbando immessi sul territorio; quando (o dove), invece, il prelievo fiscale si abbassa, diminuendo la convenienza a ricorrere al circuito delle sigarette di contrabbando, si registra una contrazione di questo reato.

Sia consentito sottolineare, nuovamente, come tali comportamenti siano sorretti da una “visione” imprenditoriale sostanzialmente analoga a quella delle attività legali.

Non desta, infatti, sorpresa ‒ per proporre qui un esempio grossolano ‒ che allorquando il Governo si appresta ad introdurre un “superbollo” sulle auto di lusso (ed identifichi questa categoria nelle vetture con cilindrata superiore a duemilacinquecento cc) che i costruttori di automobili convertano la propria produzione, costruendo motori di duemilaquattrocentonovantanove di cilindrata, al solo scopo di porsi sotto questa soglia, offrendo così al mercato un prodotto più appetibile.

Un’altra caratteristica, per completare questa sintetica analisi del fenomeno, è costituita dalla constatazione che sempre più spesso – come risulta anche dall’ultimo report disponibile di UNODC ‒ sul mercato compaiono sostanze mixate di stupefacenti.

 

  1. Policonsumo delle sostanze stupefacenti

 

Una traccia di quella che potremmo definire “morfologia plurale” è già nel testo (in più lavori del testo che noi stiamo qui presentando): possiamo dire che si assiste al policonsumo delle sostanze stupefacenti (lo stesso soggetto fa uso di sostanze stupefacenti di vario tipo) e non solo in successione nel tempo.

In altri termini, se sono veri gli aspetti ‒ ricordati nell’introduzione di Alfredo Mantovano e nell’intervento del prof. Vescovi ‒ relativi ad una progressione nell’uso delle sostanze stupefacenti, dalla cannabis e suoi derivati (non userò il termine di droghe leggere) verso droghe più potenti, è anche vero che si registra il contemporaneo uso di più sostanze considerate droghe nel mondo a partire dall’alcol a finire a queste di cui ci stiamo occupando.

Al policonsumo corrisponde, peraltro, una caratteristica importante delle organizzazioni criminali riscontrabile attraverso operatività tendenti a logiche di policriminalità.

Sempre più spesso le associazioni criminali, che prima si occupavano del commercio illegale di un solo tipo di sostanza stupefacente, mettono la loro rete di contatti criminali, il loro know how, le loro risorse umane e finanziarie al servizio di mercati diversi e di svariate tipologie di droga.

È un po’ il concetto del supermercato che soppianta la drogheria e che, per non perdere il cliente, offre nello stesso punto vendita più prodotti, in maniera da incontrare costantemente le esigenze e le preferenze del consumatore, impedendogli di rivolgersi altrove.

Addirittura, le avanzate capacità conseguite su questo piano dalla criminalità organizzata fanno sì che, ancora una volta proprio come avviene in un business legale, il consumatore venga – più o meno inconsapevolmente ‒ orientato verso il consumo di certi tipi di sostanze (spesso nuovi tipi di sostanze).

Un po’ quello che avviene, per fare un altro esempio, nel settore delle scommesse on line.

Il gioco nel nostro Paese è legale ed esistono delle strutture (autorizzate) deputate alla raccolta di puntate; l’erario statale ne trae grande beneficio attraverso i proventi di carattere tributario (tassazione delle vincite) ed extratributario (ossia il margine erariale residuo che si ottiene sottraendo dall’importo complessivo delle giocate le vincite pagate ai giocatori e l’aggio spettante al gestore del punto di gioco).

Come è noto, possiamo ironizzare richiamando quel noto concetto secondo il quale: è sempre il banco che vince.

Ma sappiamo, altrettanto bene, che all’ombra del gioco “legale” si diffonde, attraverso un parallelismo distorto di offerta, anche quello illegale che non viene certamente escluso come conseguenza di quello lecito per il semplice fatto che l’offerta “illegale”, appunto, è definita nell’ambito di un perimetro incompatibile con quello che può essere, per così dire: “certificato” – invece – dalle leggi di uno Stato.

Cosa offre in più il gioco illegale, tanto da renderlo maggiormente appetibile sul mercato, o comunque, irrinunciabile di fronte all’offerta rappresentata da quello legale?

Probabilmente maggiore anonimato, forse anche possibilità di credito, maggiori vincite…

Beh, gli aspetti sono svariati e molteplici. Gli orizzonti sono vasti se si pensa anche alle possibilità offerte dalle piattaforme internazionali di gioco on line, dove le azioni sinergiche della criminalità organizzata si concretizzano in ragione di una rete funzionale che vanta importanti snodi all’estero. Fenomeni di particolare rilevanza per chi come noi svolge costante monitoraggio e analisi dei vari gruppi della criminalità organizzata, in tutte le loro derivazioni. Attraverso queste piattaforme on line, e ricorrendo ai moderni strumenti digitali di analisi e profilazione, si realizza un sistema di “crime as a service”, un vero e proprio apparato di “e-service” criminale, nell’ambito del quale troviamo varie figure specializzate, concorrenti o direttamente organiche alle associazioni di tipo mafioso come la ‘ndrangheta, cosa nostra o la camorra, che sostengono le decisioni della struttura criminale orientandole verso il miglior bilancio di business.

Riuscire a profilare un utente significa conoscerlo, individuarne le caratteristiche soggettive per trasformarle in opportunità – di guadagno – sempre più accurate. Singolare è la capacità di individuare il “punto di dolore” di ciascun giocatore, cioè fino a quale somma quello specifico giocatore è disposto a perdere prima di “abbandonare”: oltre tale soglia quel giocatore non è più “redditizio”, perché non giocherà più e quindi lo si perde come cliente. Scenari simili possono fondatamente ipotizzarsi anche quando il tema dell’offerta illecita per l’associazione criminale “x” sia rappresentato dalle sostanze stupefacenti.

 

  1. La frammentazione funzionale del narcotraffico e della criminalità organizzata

 

Un’altra grande caratteristica che è stata illustrata e che risulta essere comune al narcotraffico e a vari aspetti della criminalità organizzata è la frammentazione funzionale: dei processi di produzione, traffico e spaccio, ma anche dell’offerta. Lo scorso decennio ha visto emergere una concentrazione di gruppi criminali, dediti alle droghe, abbastanza consistente. Oggi si assiste a questa segmentazione, appunto, delle varie funzioni della catena, risposta di resilienza anche alle azioni di contrasto che, in questo modo, hanno meno possibilità di colpire l’intera struttura in modo incisivo.

Comparti autonomi, fatti di “attori” specializzati in una specifica attività: vengono definiti i professional.

In realtà, questo metodo non è una “invenzione” recente: vi è una sentenza molto nota agli addetti ai lavori (United States vs Bruno), relativa alla condanna di un gruppo organizzato e dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti negli Stati Uniti d’America. Il sodalizio era composto da ottantotto persone e la difesa durante il dibattimento sostenne che non c’era una associazione criminale (più correttamente una “conspiracy”) perché le attività “to import, to sell and to possess” (cioè di importazione, di vendita e di possesso delle droghe) erano gestite da gruppi diversi i cui membri addirittura non si conoscevano tra di loro e, quindi, non si poteva parlare di un’unica associazione. Questa sentenza (che risale al 1939) affermò, invece, che l’associazione criminale esisteva e che i menzionati segmenti dell’azione delittuosa erano come gli anelli di un’unica catena, una “conspiracy chain”.

 

  1. Gli interventi della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo

 

Concludendo questa rapida carrellata è giunto il momento di illustrare che cosa fa la Direzione Nazionale antimafia e Antiterrorismo rispetto a queste attività delinquenziali. Ebbene, noi cerchiamo di fortificare e di potenziare l’azione di chi è in trincea o in prima linea; cerchiamo di far diventare Super Procuratori i magistrati che sul terreno combattono i fenomeni criminali, rappresentando una sorta di “booster”, una spinta in più che unisce le forze e moltiplica la capacità di contrasto.

Lo facciamo, da molti anni, operando soprattutto sui piani della cooperazione internazionale e dello sviluppo di nuove tecnologie: abbiamo intessuto rapporti importantissimi con le Procure omologhe alla nostra, le Procure generali e i vertici delle forze di polizia di circa sessanta Paesi nel mondo (in particolare, per quanto riguarda il fenomeno qui trattato, quelli dell’area dell’America latina ma anche del Nordafrica e dell’Asia).

Il nostro Paese ha una grande tradizione di contrasto al crimine organizzato e abbiamo acquisito un’autorevolezza che va naturalmente oltre le singole persone che rappresentano questi uffici: riusciamo a fornire ai Paesi con i quali collaboriamo aiuti sul piano strettamente giudiziario, ma anche una intensa attività di formazione.

Spianiamo la strada a rapporti cooperativi molto molto efficaci che permettono poi di realizzare quelle grandi operazioni di cui leggiamo sui giornali o che vediamo in televisione.

Sul piano dei numeri, per collegare all’attualità l’andamento dell’uso delle sostanze stupefacenti, la pandemia ha portato ad una netta diminuzione dei dati registrati: se nel 2017 le persone sottoposte ad indagine per il reato di associazione dedita a reati di droga erano circa quattordicimila, nel 2018 essi erano dodicimila, nel 2019 tredicimila; nel 2020 c’è stato un decremento (diecimila) e nel 2021 un ulteriore netto decremento (ottomila e quattrocento).

Va sottolineato come non vi sia stato un analogo decremento dei procedimenti penali che più o meno sono intorno ai 950 per ognuno degli anni sopra menzionati: se ne deduce che l’intervento repressivo, prima delle forze di polizia e poi della dalla magistratura, è sostanzialmente rimasto costante quello che è diminuito è il numero medio di persone indagate per ogni episodio criminoso.

Probabilmente la ragione è collegata alle restrizioni di spostamento in ambito nazionale: quindi i singoli criminali non si potevano riunire e comunque risultava più difficile – per gli investigatori ‒ far emergere tutti i contatti tra i vari correi, ma risultavano anche impediti o fortemente limitati i flussi in entrata nel nostro Paese da parte di soggetti partecipi di questo traffico criminale.

Per quanto riguarda i sequestri possiamo dire che, con riferimento al periodo pandemico, c’è stata una netta diminuzione dei sequestri di stupefacenti relativamente a tutte le sostanze tranne la cocaina; c’è stato, invece, un aumento dei sequestri delle piantine di canapa (non dei derivati della canapa ma delle piantine di canapa) e ciò lascerebbe ipotizzare una produzione potenziata sul territorio nazionale di questo tipo di sostanza.

 

  1. Conclusioni

 

La rassegna sin qui presentata consente di provare a fornire una risposta alla domanda di fondo posta dal libro oggi presentato: se si depenalizzano le droghe, con riferimento ai soli cannabinoidi, si ottiene una riduzione delle attività criminali?

Devo dire che nell’ambito della mia ultratrentennale esperienza professionale non ho mai visto una associazione criminale di tipo mafioso o comunque dedita al narcotraffico su basi fortemente strutturate e con ramificazioni transnazionali (si pensi, ad esempio, agli appartenenti ai cults nigeriani o alle bande di albanesi) che abbia chiuso i battenti o abbia – come si suol dire in gergo commerciale ‒ “portato i libri in tribunale” per essere venuto meno l’oggetto della loro attività.

Come esposto sin qui, i gruppi criminali organizzati vivono di delitti e pianificano le loro attività sulla base delle opportunità di guadagno che i vari mercati illegali offrono. Per essere più precisi, il nostro legislatore, attraverso la previsione dell’articolo 416 bis del Codice penale, considera comportamento fortemente pericoloso e, quindi, da punire con la sanzione penale, anche l’esercizio di attività legali, quando esse siano poste in essere da associazioni che si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.

Tale previsione fotografa perfettamente l’attitudine imprenditoriale dei clan mafiosi o paramafiosi e contempla la possibilità che l’“oggetto sociale” dell’associazione criminale sia vario e persino mutevole.

Basti riflettere, ad esempio, come diversi gruppi criminali di tipo mafioso (occupantisi anche di smercio di droga) durante la pandemia hanno ampliato il novero delle attività gestite, e ‒ ferma restando la loro “ragione sociale” – hanno aggiunto nuovi traffici agli interessi delinquenziali già perseguiti, trasformandosi in negoziatori ed importatori di “mascherine” e altri dispositivi medicali o di protezione.

La descritta logica di business comporta, perciò che, accanto alla filiera di vendita ufficiale e legale di prodotti da fumo (tabacco), all’occorrenza (sulla base delle illustrate ragioni di convenienza economica) si attivi una rete “alternativa” illegale alimentata dal contrabbando di TLE; o che, accanto alle ricevitorie del lotto e agli altri canali autorizzati di gioco in presenza oppure on line, la criminalità organizzata gestisca “in proprio” reti e piattaforme illegali.

È, pertanto, ragionevole supporre che rendendo lecito il mercato dei cannabinoidi si verifichi un fenomeno del tutto simile a quelli appena descritti.

Il professore Vescovi, nel suo intervento ci ha detto che con un principio attivo THC (tetraidrocannabinolo) del quaranta/cinquanta per cento la sostanza stupefacente diviene molto pericolosa. Le risultanze scientifiche accolte sinora nei tribunali fissano allo 0,5% la percentuale oltre la quale si ritiene sussista un principio drogante. Partendo da tale riferimento scientifico, ipotizziamo che il legislatore decida che sia legale vendere, ad esempio, nelle farmacie, nei “sale e tabacchi” o in negozi specializzati, le sostanze derivanti dalla canapa con un THC fino all’1 per cento o poco più. È agevole immaginare che, in tale scenario, si apra un “mercato più specifico” per i gruppi criminali che attualmente si occupano di questa attività: essi venderanno prodotti caratterizzati da un THC superiore al “tetto legale”. E, inoltre, eserciteranno questa vendita con orario continuato (anche al di fuori degli orari di apertura dei rivenditori legali) oppure in luoghi diversi, più comodi per l’utente e più vicini alle sue necessità di consumo (ad esempio, nelle discoteche, nelle ludoteche, negli stadi o, addirittura, presso aziende e uffici dove assicureranno un funzionale delivery).

Altro probabile scenario (complementare a quello sopra riportato) potrà consistere nel trasformare il mercato dei cannabinoidi in secondario e focalizzare gli sforzi criminali verso la diffusione, soprattutto tra i minorenni, di nuove droghe, a cominciare dalle NSP come sta già avvenendo.

Ancora una volta, il crimine organizzato dimostrerà lungimiranza e skills imprenditoriali che gli consentiranno una efficace riconversione verso nuovi traffici illeciti, nuove imprese delinquenziali, pronto a sfruttare in tali nuove “avventure” i consolidati legami interpersonali, il controllo del territorio, la capacità di intimidazione e la riserva di violenza di cui è portatore.

Conclusivamente e lasciando ad altri ogni valutazione sul fatto che sia etico o meno che uno Stato consenta la diffusione di questo tipo di sostanza (considerando anche quali potrebbero essere i danni sulla salute degli assuntori e non solo) ritengo certo che la eventuale liberalizzazione delle droghe derivanti dalla canapa o di qualunque altro tipo di droga non farebbe altro che indurre i grossi gruppi criminali ad allocare altrove i loro interessi illeciti ovvero a modularli diversamente e, quindi, non diminuirebbe di un millimetro la capacità criminale e criminogena delle consorterie mafiose.