Daniela Bianchini 
Avvocato in Roma, Dottore di ricerca e Cultore della materia in Diritto di Famiglia e minorile
Università LUMSA

Sommario: 1. La sindrome di alienazione parentale ‒ 2. L’ordinanza n. 9691/2022 della Cassazione e i precedenti giurisprudenziali ‒ 3. Ascolto del minore, consulenze tecniche, valutazione dei fatti nel superiore interesse del minore e formazione dei professionisti ‒ 4. Le indicazioni del Consiglio d’Europa e della Commissione europea per una giustizia a misura di minore ‒ 5. Conclusioni.

 

  1. La sindrome di alienazione parentale

 

Si è iniziato a parlare di “Sindrome di Alienazione Parentale” (anche detta PAS dall’ acronimo di “Parental Alienation Syndrome”) negli anni ‘80, quando lo psichiatra americano Richard Gardner iniziò a teorizzarla come dinamica psicologica disfunzionale che si attiverebbe nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo la costruzione di Gardner, la motivazione del rifiuto dei figli verso uno dei genitori (c.d. alienato) sarebbe da attribuirsi alla condotta ostile e denigratoria dell’altro genitore (c.d. alienante)[1].

Per tanti anni i giudici di merito hanno basato provvedimenti in materia di responsabilità genitoriale e di allontanamento dei figli sulla sindrome di alienazione parentale, sostenuta da numerosi consulenti tecnici di area psicologica, malgrado fosse priva di fondamento scientifico[2].

Con il tempo, in dottrina, si sono formati dei veri e propri schieramenti: da una parte i sostenitori della PAS – fra cui alcune associazioni di padri separati ‒ che hanno posto l’attenzione sulla necessità di interventi a tutela della figura paterna contro certi atteggiamenti ostruzionistici di alcune madri volti a limitare la presenza dei padri nella vita dei figli dopo la separazione; dall’altra tutti coloro – fra cui associazioni a tutela delle donne vittime di violenza ‒ contrari all’applicazione nei processi di una teoria priva di fondamento scientifico e peraltro punitiva soprattutto delle donne, tanto che la PAS è stata anche talvolta tradotta come “sindrome della madre malevola”, mentre non si è parlato allo stesso modo di “sindrome del padre malevolo”.

Nella comunità scientifica, malgrado non siano mancati consulenti tecnici favorevoli all’applicazione di questa teoria, tanto da giustificare sulla base della stessa numerosi allontanamenti di bambini da uno dei genitori (per lo più la madre), tuttavia la PAS non è mai stata riconosciuta come malattia e non è stata neppure inserita nell’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5).

Da qui un primo elemento da mettere in evidenza: l’uso improprio del termine “sindrome” per descrivere la condotta di un genitore che, pur essendo suscettibile di valutazione da parte del giudice ai fini della tutela del minore coinvolto nel procedimento, non è comunque di per sé ascrivibile all’interno di un quadro patologico. Con il termine “sindrome”, infatti, si indica in ambito medico-scientifico la presenza di un insieme di sintomi e segni clinici che costituiscono la manifestazione di una o diverse malattie. Nella costruzione operata da Gardner, il genitore c.d. alienante porrebbe in essere un atto consapevole di “programmazione del bambino” attraverso la denigrazione dell’altro genitore. Tuttavia, la dinamica illustrata da Gardner e dai suoi sostenitori non tiene conto del fatto che nel bambino vi possa essere un’autonoma identificazione inconscia con il genitore convivente, che può portare anche al rifiuto dell’altro genitore[3].

Con questo non si vuole negare il fenomeno di padri e madri che screditano l’altro genitore agli occhi dei figli ponendo in essere condotte volte ad ostacolare la piena realizzazione della bigenitorialità[4], come si dirà nei paragrafi successivi. Si intende piuttosto sottolineare la necessità che le situazioni familiari vengano valutate nella loro complessità, evitando il ricorso a soluzioni stereotipate[5] come quelle a cui spesso nelle aule giudiziarie si è giunti seguendo il paradigma della teoria elaborata da Gardner e secondo la quale se un figlio rifiuta uno dei due genitori la responsabilità va ricercata sempre nella condotta alienante dell’altro, con la conseguenza che il minore deve essere da questi allontanato. Una soluzione, questa, che non tutela efficacemente i minori coinvolti, dal momento che rimane ancorata a modelli astratti, rigidi, che non tengono conto delle specificità di ogni singolo caso. Il giudice deve accertare in concreto se effettivamente il figlio rifiuti il rapporto con uno dei genitori e, in caso affermativo, deve accertare le ragioni del rifiuto, verificando in particolare se le stesse siano state indotte dall’altro genitore per ragioni di astio o di rivalsa o se invece detto rifiuto trae origine da un disagio del minore dovuto ad esempio alla disgregazione del nucleo familiare o alla condotta stessa del genitore rifiutato.

Per diversi anni bambini ed adolescenti sono stati invece allontanati da uno dei genitori per il solo fatto di aver manifestato un rifiuto nei confronti dell’altro genitore: le “diagnosi” di PAS da parte dei Consulenti Tecnici d’Ufficio (CTU) in molti casi hanno determinato lo sradicamento dei minori dai propri affetti familiari, senza l’adeguata ed opportuna valutazione delle ragioni sottese al rifiuto manifestato dal minore[6].

Con il tempo sono emerse situazioni che hanno dimostrato la pericolosità ed inattendibilità di quella teoria[7]: i traumi, le sofferenze, le problematiche a livello di sviluppo psicofisico di tanti bambini allontanati da uno dei genitori (in genere la madre) sulla base della sindrome di alienazione parentale hanno quindi imposto un’attenta riflessione.

Nel 2012, in seguito ad un drammatico fatto di cronaca[8] è stata presentata alla Camera un’interpellanza urgente in materia (la n. 2-01706 “Elementi in merito alla sindrome di alienazione genitoriale, con particolare riferimento al suo inserimento nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, finalizzata a fare chiarezza sulla PAS e a sollecitare il Ministero della Salute a valutare l’opportunità di promuovere eventuali iniziative nei confronti di medici o esercenti attività sanitarie «che dovessero farne oggetto di diagnosi e, quindi, considerare questa PAS una malattia di tipo psicopatologico»[9].

Oltre alla Cassazione – di cui a breve si dirà circa la posizione assunta nel corso degli anni e da ultimo con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022 ‒ è intervenuta sulla questione anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2020 ha escluso la possibilità di inserire la PAS nell’elenco delle patologie riconosciute (ICD 11, International Classification of Diseases). Nello stesso anno, il Ministro della Salute italiano, nel corso di un’interrogazione parlamentare (n. 4-02405), ha osservato che la PAS «ad oggi non è riconosciuta come disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale […] Detta “sindrome” non risulta inserita in alcuna delle classificazioni in uso».

Si è occupata della materia anche la recente riforma della giustizia, raccogliendo le richieste più volte avanzate dagli operatori del settore a tutela dei minori e delle donne (le maggiori vittime della PAS): il comma 23 lett. b) della Legge delega n. 206/2021 stabilisce infatti, fra i principi e criteri direttivi, che il consulente tecnico eventualmente nominato dal giudice nel procedimento debba attenersi «ai protocolli e alle metodologie riconosciuti dalla comunità scientifica senza effettuare valutazioni su caratteristiche e profili di personalità estranee agli stessi».

Per completezza è opportuno precisare che, accanto a manifestazioni di contrarietà, vi sono stati altresì interventi volti a far recepire in testi normativi la PAS, che malgrado non abbiano trovato attuazione è comunque utile ricordare, se non altro per comprendere meglio il clima in cui la Cassazione è intervenuta sull’argomento.

Il Ddl n. 957 del 2008 “Modifiche al codice civile e al codice di procedura civile in materia di affidamento condiviso”, all’art. 9 prevedeva l’integrazione dell’art. 709 ter c.p.c. con l’inserimento del seguente comma dopo il secondo: «il comprovato condizionamento della volontà del minore, in particolare se mirato al rifiuto dell’altro genitore attivando la sindrome di alienazione genitoriale, costituisce inadempienza grave, che può comportare l’esclusione dall’affidamento».

Questo disegno di legge, come riportato nell’introduzione, prendeva le mosse dalla necessità di «porre fine a quei frequenti tentativi di manipolazione da parte di un genitore – di regola quello che ha maggiori spazi di convivenza – miranti ad eliminare completamente l’altro dalla vita dei figli, inducendo in essi il rifiuto di ogni contatto, un malessere indotto che va sotto il nome di Sindrome di alienazione genitoriale», con un richiamo esplicito a quanto teorizzato da Gardner e muovendo dall’erronea considerazione secondo la quale la letteratura scientifica avrebbe «ampiamente documentato sia l’esistenza di questa specifica sindrome che il principale suo rimedio, che consiste nel togliere potere al genitore condizionante, negandogli l’esercizio della potestà».

Due anni dopo, con il Ddl n. 2454 presentato il 16 novembre 2010 e intitolato “Nuove norme sull’affidamento condiviso dei figli di genitori separati” è stato riproposto il tema, anche se in questo caso il riferimento alla PAS è stato limitato alla sola relazione illustrativa, senza alcun riferimento nel testo. Più precisamente, dopo aver ripreso quanto già affermato nella relazione illustrativa del Ddl 957 cui sopra si è fatto cenno, nel Ddl 2454 si è osservato che «a prescindere dalla ufficializzazione o meno della PAS – e dai riconoscimenti del mondo accademico – sono ormai ampiamente riconosciuti nel mondo giuridico i problemi legati alla manipolazione dei figli, quale che ne siano il titolo e la definizione tecnica, e i gravissimi danni che provocano nei figli, soprattutto quando arrivano fino ad indurre il rifiuto degli incontri con il genitore alienato».

Va poi ricordato il tentativo di legalizzare la PAS attraverso il Ddl 735 del 2018 “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, che all’art. 17 prevedeva la modifica dell’art. 342 bis c.c. con l’introduzione del seguente comma: «Quando in fase di separazione dei genitori o dopo di essa la condotta di un genitore è causa di grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri familiari, ostacolando il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore e la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui agli articoli 342-ter e 342-quater» stabilendo la possibilità di applicare detti provvedimenti, sempre secondo l’art. 17, «anche quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi».

L’articolo da ultimo citato, in altri termini, attraverso quell’inciso “pur in assenza di evidenti condotte”, escludeva un elemento invece fondamentale per la tutela dei minori, ossia l’accurata valutazione dei fatti. Un provvedimento giudiziario che esula da un approfondito esame della situazione ‒ anche attraverso l’ascolto del minore e dei suoi genitori ‒ rischia di essere pregiudizievole per il minore o comunque di non essere adeguato alla realizzazione del suo interesse, secondo quanto previsto dall’art. 3.1 della Convenzione ONU del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per cui «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».

 

  1. L’ordinanza n. 9691/2022 della Cassazione e i precedenti giurisprudenziali

 

Dalla fine degli anni ‘90 la giurisprudenza di merito ha manifestato una certa apertura nei confronti della PAS, come dimostrano numerose pronunce in cui vi è stata un’evidente applicazione del modello teorizzato da Gardner[10]. Al contempo, si è assistito ad una manifestazione di contrarietà da parte della Cassazione sempre più esplicita, fino ad arrivare all’ultima pronuncia del marzo 2022.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9691 pubblicata in data 24 marzo 2022, ha infatti espressamente affermato che in materia di affidamento dei minori le pronunce dei giudici non possono basarsi su teorie prive di fondamento scientifico, facendo un esplicito riferimento alla PAS.

Nel caso di specie, la Corte ha accolto il ricorso di una madre contro il provvedimento che aveva stabilito la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale e il collocamento del figlio minore in casa famiglia. Alla base del provvedimento impugnato vi era l’attribuzione alla donna di comportamenti ritenuti “alienanti”: il padre aveva lamentato difficoltà a relazionarsi con il figlio e il consulente tecnico d’ufficio aveva attribuito la responsabilità del rifiuto del minore al comportamento della madre. Di conseguenza, il Tribunale per i Minorenni di Roma aveva pronunciato nei confronti della donna la decadenza dalla responsabilità genitoriale, disponendo il collocamento in casa famiglia del bambino e l’interruzione di ogni contatto del piccolo con la madre.

La donna, preoccupata per il pregiudizio che quel provvedimento avrebbe potuto recare alla salute e all’equilibrio psicofisico del figlio, aveva presentato ricorso alla Corte d’Appello di Roma al fine di far sospendere l’esecuzione del provvedimento. La Corte d’Appello, tuttavia, nonostante il parere favorevole alla sospensione espresso dalla competente Procura Generale, rigettava il ricorso confermando l’allontanamento del minore dalla madre.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha cassato con rinvio il decreto della Corte d’Appello ed ha preso posizione su alcune importanti questioni in materia di affidamento dei minori, ribadendo in primo luogo che i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale non possono basarsi su teorie prive di fondamento scientifico, come è appunto la sindrome di alienazione parentale (PAS), su cui peraltro la Corte era già intervenuta più volte, da ultimo con la nota ordinanza n. 13217 pubblicata il 17 maggio 2021, con cui ‒ seguendo un ormai consolidato orientamento ‒ aveva chiarito che i giudici sono tenuti ad accertare la veridicità dei comportamenti pregiudizievoli per i minori e non possono limitarsi al mero richiamo della consulenza tecnica. In quell’occasione, la Corte aveva altresì affermato che deve escludersi «la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare». La Corte aveva fatto riferimento alla PAS, ma giova osservare che quanto enunciato concerne tutte le teorie o soluzioni prive del necessario fondamento scientifico, anche nel rispetto del principio di precauzione, che in materia di famiglia assume un peculiare rilievo ed è strettamente connesso al principio di tutela del superiore interesse del minore.

A distanza di meno di un anno dall’ultima pronuncia sull’argomento, la Cassazione ha dunque ribadito con fermezza la necessità di bandire dalle aule di giustizia la PAS, ed ha osservato che «il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre».

La Cassazione già nel 2013[11]  (sentenza del 20 marzo 2013 n. 7041) ‒ aveva affermato che la tutela dei minori impone il rifiuto di teorie prive del necessario supporto scientifico[12], ritenendo quindi opportuno evitare qualsiasi riferimento alla PAS nei procedimenti di affidamento dei figli. I giudici chiamati a disciplinare i rapporti genitoriali – ha precisato la Corte ‒ devono verificare «il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale» ricorrendo «alle proprie cognizioni scientifiche (Cass., 14759 del 2007; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti».

La tutela del minore rappresenta l’obiettivo principale da realizzare e pertanto l’astratta presenza di un disagio non può costituire di per sé, in modo automatico, la ragione di un provvedimento con cui si dispone l’allontanamento del minore da uno o da entrambi i genitori.

Come osservato dalla Cassazione nella sentenza da ultimo citata, i giudici di merito sono tenuti ad operare valutazioni e scelte ponderate, anche alla luce di tutte le eventuali censure e contraddizioni sollevate dalle parti o rilevabili nella comunità scientifica: «di certo» – ha affermato la Cassazione ‒ «non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare».

La Cassazione è poi intervenuta in materia con la sentenza n. 6919 del 2016[13], laddove, pur non prendendo una netta posizione di contrarietà nei confronti della PAS, ha tuttavia messo in evidenza la necessità che i giudici accertino la veridicità dei fatti, senza aderire in maniera acritica alle relazioni dei CTU[14].

Da ultimo, con l’ordinanza n. 9691/2022, la Cassazione ha confermato l’orientamento già espresso con la sentenza n. 7041/2013, basato a ben vedere sul principio di precauzione (in assenza di evidenze scientifiche, bisogna evitare di esporre i minori ai rischi derivanti dall’applicazione di teorie potenzialmente pregiudizievoli).

Come è immaginabile, detta pronuncia ha suscitato reazioni contrastanti, proprio in ragione di quella dicotomia cui sopra si è fatto cenno: i contrari alla PAS hanno manifestato soddisfazione per questa ulteriore conferma, mentre i sostenitori della discussa teoria hanno manifestato il timore che in tal modo non vengano condannati i comportamenti ostruzionistici posti in essere da alcuni genitori ai danni dei propri figli, con riferimento alla violazione del diritto alla bigenitorialità.

Si tratta di preoccupazioni comprensibili, in quanto se è vero che la PAS non esiste come patologia, è però altrettanto vero che esistono genitori i quali – mossi dal rancore, dal dolore della separazione, dal sentimento di rivalsa, da fragilità personali ecc. ‒ più o meno consapevolmente attuano condotte lesive per la sana crescita dei figli, screditando ad esempio l’altro genitore, oppure ostacolando le visite.

Tuttavia l’esclusione dell’utilizzabilità della PAS come teoria va proprio nella direzione di tutelare i minori in maniera più efficace. Non va infatti trascurato che tante volte il ricorso alla PAS è servito per screditare le donne vittima di violenza in famiglia e per far passare come infondate le loro richieste di limitazione delle visite dei figli con l’altro genitore o, ancora, come ritorsione nei confronti della controparte nei casi di alta conflittualità.

Non di rado la PAS è servita quale come strumento di aggressione di un genitore verso l’altro, veicolando nel processo illazioni relative al modo di essere del genitore indicato come “alienante” piuttosto che su condotte concretamente pregiudizievoli per i figli.

La Cassazione, nel ribadire da ultimo l’inutilizzabilità della PAS – e di tutte le altre teorie prive di fondamento scientifico ‒ nei procedimenti riguardanti i minori, ha dunque fatto chiarezza, ponendo altresì l’attenzione su diversi aspetti concernenti i diritti dei minori e sulla loro effettiva tutela.

Rifiutare la PAS come teoria non significa infatti rinunciare a condannare i comportamenti scorretti di taluni genitori, contrari all’interesse dei figli: significa semmai sgomberare il campo da elementi privi di valore probatorio, per dare invece risalto ai fatti e alla loro corretta valutazione, secondo le regole del giusto processo.

La madre o il padre che ostacola le visite dei figli con l’altro genitore pone astrattamente in essere una condotta pregiudizievole per i minori, che per il loro sano ed equilibrato sviluppo psicofisico hanno il diritto di mantenere rapporti con entrambe le figure genitoriali, anche se non necessariamente con tempi paritetici[15]. Tuttavia, qualsiasi decisione in merito deve basarsi sull’attenta valutazione del singolo caso concreto, tanto che la Cassazione ha più volte precisato (e da ultimo nell’ordinanza n. 9691/2022) che nel superiore interesse del minore può essere limitato anche il diritto alla bigenitorialità.

Quando un minore rifiuta di incontrare uno dei genitori, preferendo restare con l’altro, non si può automaticamente ricondurre detto rifiuto alla condotta del padre o della madre convivente: le ragioni possono essere tante e talvolta sono legate a inconsci meccanismi di protezione del figlio nei confronti del genitore percepito come più fragile. Elementi utili, in questi casi, possono essere tratti dall’ascolto diretto del minore, laddove possibile.

 

  1. Ascolto del minore, consulenze tecniche, valutazione dei fatti nel superiore interesse del minore e formazione dei professionisti

 

Nell’ordinanza n. 9691/2022 la Cassazione, oltre a prendere posizione sulla PAS, ha affrontato anche altre tematiche rilevanti in materia di rapporti genitoriali ed affidamento dei figli, quali la bigenitorialità, l’ascolto del minore, il ruolo dei consulenti tecnici d’ufficio, la funzione degli avvocati.

Sulla bigenitorialità[16] la Cassazione ha ricordato che si tratta innanzitutto di un diritto dei minori e in quanto tale è inconcepibile pensare di poterlo tutelare efficacemente rimuovendo una delle figure genitoriali (p. 25 ss. dell’ordinanza).

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto errata la posizione della Corte d’Appello laddove ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità escludendo dalla vita del bambino la presenza della madre, sulla base di motivazioni che in sostanza erano meri rinvii alla consulenza tecnica.

Anche in questo caso ‒ ha ricordato la Corte richiamando i principi della Convenzione ONU su diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nonché l’art. 8 della CEDU ‒ il criterio che deve orientare l’interprete è sempre quello del superiore interesse del minore, da valutarsi in concreto e alla luce di tutti gli elementi utili al giudizio. Per la Cassazione il provvedimento impugnato non può essere condivisibile in quanto «ha inteso realizzare il diritto pretermesso di uno dei genitori alla bigenitorialità del figlio…attraverso una visione parziale del migliore interesse del minore, ossia senza in alcun modo affrontare la questione della sottrazione improvvisa del dodicenne alla madre e all’ambiente familiare in cui è cresciuto (secondo le ricognizioni non contestate: serenamente) ed accudito amorevolmente  e senza alcuna apparente problematica» (p. 25).

Pertanto, «al fine della tutela del diritto alla bigenitorialità», conclude sul punto la Corte, occorre provare se la condotta sia stata tale «da aver leso in modo grave il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, sino al peggior risultato ipotizzabile, quello di renderlo difficilmente recuperabile o del tutto irrecuperabile» (p. 26).

La Cassazione ha quindi precisato che ogni decisione assunta dai giudici con riferimento ai minori deve tener conto delle diverse situazioni concrete e delle conseguenze che potrebbe determinare nella vita dei destinatari e, proprio sulla base di questa osservazione, ha criticato i giudici di merito per non aver considerato le ripercussioni che l’allontanamento avrebbe determinato sulla vita e sulla salute del bambino.

Altro interessante argomento preso in esame dall’ordinanza è quello che attiene all’ascolto del minore[17], a cui peraltro anche la riforma del processo civile[18] ha dato ampio risalto, nel rispetto di quanto previsto dalla normativa interna e dalle convenzioni internazionali a tutela dei minori.

La Cassazione ha ritenuto nullo il provvedimento di merito in ragione dell’ingiustificato mancato ascolto del minore: «in tema di affidamento dei figli minori l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e valutare i suoi bisogni». L’ascolto del minore ‒ precisa la Corte ‒ «non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse» (pp. 30-31). Solo l’ascolto diretto del giudice, ha precisato la Cassazione, «dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda», concludendo che nei procedimenti in materia di famiglia la tutela del minore «si realizza mediante la previsione che deve essere ascoltato e costituisce pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato ascolto, quando non sia sorretto da un’espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione».

I giudici sono chiamati a valutare i fatti: gli eventuali elementi offerti dalle consulenze tecniche devono pertanto essere da loro recepiti in maniera critica. È questo un ulteriore aspetto, legato alla PAS ma non confinato a questa tematica, che riguarda il rapporto fra giudici e consulenti tecnici di ufficio. Non di rado, negli anni, è stato demandato ai CTU di pronunciarsi in ordine ad aspetti delle vicende familiari estranei alle loro specifiche competenze (si pensi ad esempio ai tempi di permanenza del minore presso ciascun genitore), così come non di rado sono confluite nelle sentenze le osservazioni dei consulenti tecnici senza un’adeguata valutazione critica da parte dei giudici. Questo meccanismo ha portato a violazioni, anche gravi, dei diritti di bambini ed adolescenti, in quanto le decisioni assunte nei loro confronti, non essendo state il frutto di un’attenta valutazione dei fatti, quanto piuttosto la pedissequa adesione alle osservazioni peritali, non hanno realizzato pienamente il loro interesse e quindi non hanno attuato quella tutela che lo Stato ha l’obbligo di garantire ai minori.

Lo Stato, come affermato più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – che proprio per violazione dell’art. 8 della CEDU ha condannato in diverse occasioni l’Italia[19] ‒ deve porre in essere tutte le misure necessarie per la costruzione o il mantenimento della relazione del minore con entrambe le figure genitoriali: l’autorità giudiziaria non può quindi limitarsi ad adottare passivamente provvedimenti “di prassi” ‒ come ad esempio le consulenze tecniche, il monitoraggio dei Servizi Sociali, il sostegno alla genitorialità ecc. ‒ dovendo piuttosto intervenire in maniera attiva e tempestiva al fine di salvaguardare i legami familiari del minore.

Il consulente tecnico – laddove sia chiamato ad osservare le dinamiche relazionali dei componenti del nucleo familiare ‒ ha la funzione di fornire al giudice il relativo quadro clinico. Compete poi al giudice esaminare tutti gli elementi della vicenda processuale ed operare un bilanciamento fra i diversi diritti, al fine di individuare la soluzione migliore per il singolo minore coinvolto, nel rispetto di quanto previsto anche dall’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

È evidente che la realizzazione di questo obiettivo presuppone non solo il rispetto delle diverse competenze, ma anche la collaborazione di tutti i soggetti del procedimento: genitori, avvocati, consulenti tecnici, giudici, assistenti sociali. Tutti sono infatti chiamati a cooperare alla realizzazione del concreto interesse del minore.

I genitori hanno innanzitutto il dovere di rappresentare i fatti in maniera veritiera, in modo da fornire al giudice un quadro di indagine chiaro: una rappresentazione alterata della situazione non può che determinare infatti una soluzione inadeguata perché basata su presupposti errati.

La realizzazione del superiore interesse del minore esige inoltre l’impegno dei difensori – peraltro auspicato per inciso anche dalla Cassazione nell’ordinanza n. 9691/2022, pagina 35 ‒ a limitare il conflitto fra le parti, presupponendo quindi una loro adeguata formazione in materia di diritto di famiglia e capacità di mediazione. Va altresì aggiunto che la cooperazione dei professionisti coinvolti è concretamente possibile solo laddove gli stessi abbiano un’adeguata formazione specialistica, in ragione della complessità della materia riguardante la famiglia e i minori, che esige una peculiare competenza multidisciplinare.

A tal ultimo proposito, giova considerare che talvolta l’alta conflittualità delle parti nelle separazioni o nelle regolamentazioni dei rapporti genitoriali viene alimentata (se non addirittura originata) da opinabili strategie difensive, che antepongono al superiore interesse del minore il raggiungimento dell’obiettivo indicato dal proprio cliente, senza tener conto degli effetti pregiudizievoli che questo può comportare per i figli.

Come è stato efficacemente messo in evidenza in un’ordinanza del Tribunale di Milano di qualche anno fa (cfr. 23 marzo 2016 – est. G. Buffone), «nel processo di famiglia, l’avvocato è difensore del padre o della madre ma certamente è anche difensore del minore. Qualunque sia la sua posizione processuale […] In altri termini, nella doverosa assistenza del padre o della madre, l’avvocato deve sempre anteporre l’interesse primario del minore e, in virtù di esso, arginare la micro-conflittualità genitoriale, scoraggiare litigi strumentali al mero scontro moglie-marito, proteggere il bambino dalle conseguenze dannose della lite».

Gli avvocati hanno dunque un ruolo fondamentale nella gestione del conflitto genitoriale e certamente si pone in contrasto con gli obiettivi sopra indicati una strategia difensiva volta a screditare la controparte e a sminuirne (specie se in maniera infondata) le capacità genitoriali. Altrettanto pregiudizievoli per i minori ‒ in quanto ostacolano il giudice nella corretta valutazione dei fatti ed alimentano la conflittualità genitoriale ‒ sono le false accuse e le denunce strumentali, che peraltro determinano anche un problema per l’organizzazione della giustizia e in quanto tali andrebbero sanzionate laddove accertate, anche al fine di scoraggiare il ricorso allo strumento penale laddove non necessario.

Gli avvocati nei procedimenti di famiglia – ricorda ancora il Tribunale di Milano nella ordinanza da ultimo citata ‒ devono assumere «una posizione comune a difesa del bambino, non assecondando diverbi fondati su situazioni prive di concreta rilevanza» in quanto «il contratto di patrocinio stipulato con un genitore per assisterlo in un procedimento minorile in cui sono coinvolti i figli, di fatto perviene alla conclusione di un contratto “ad effetti protettivi verso terzi” ove terzi sono i figli, secondo il modello negoziale collaudato in settori affini, come quello sanitario».

Compete di conseguenza agli avvocati suggerire ai propri assistiti la correzione di certi atteggiamenti lesivi dei diritti dei minori, secondo le indicazioni della “Carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori” elaborata nel 2018 dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, che mette in rilievo l’importanza di non coinvolgere la prole nei conflitti parentali: talvolta i genitori coinvolti nei giudizi sono talmente concentrati su se stessi o in preda alle emozioni che non si rendono neppure conto degli effetti di certe condotte e del pregiudizio che le stesse possono recare ai figli.

Un ulteriore aspetto messo in luce dalla Cassazione attiene alle concrete modalità attuative dei provvedimenti giudiziari di allontanamento.

Nei casi in cui il minore debba essere allontanato dai genitori per essere condotto in altro luogo, come ad esempio una casa famiglia, le autorità preposte devono sempre astenersi dall’impiegare la forza fisica. Simili misure autoritative, osserva la Corte, non sono conformi «ai principi dello Stato di diritto», non sono compatibili con «la tutela della dignità della persona» (p. 34) e potrebbero altresì cagionare traumi ai minori. Anche nel rispetto dei principi della CEDU, ha aggiunto la Corte, le autorità dovrebbero semmai prendere in considerazione l’utilizzo delle sanzioni economiche ex art. 709 ter c.p.c., in caso di violazioni dolose o colpose delle prescrizioni impartite dal giudice.

A tal ultimo proposito, giova ricordare che dopo circa due mesi dalla pubblicazione dell’ordinanza n. 9691/2022 della Cassazione, in data 31 maggio 2022, è stato stipulato fra il Ministero dell’interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza e il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali un protocollo d’intesa finalizzato – si legge all’art. 2 ‒ «a favorire sinergie virtuose volte a garantire che i diritti e il superiore interesse dei minori sia sempre garantito in tutti quei casi in cui sia necessario un intervento di allontanamento dalla casa familiare»[20].

Come affermato dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza a conclusione dell’accordo «Servono regole chiare e uniformi in tutta Italia, a tutela dei bambini e dei ragazzi, in occasione degli allontanamenti dei minorenni dalla famiglia di origine che richiedono l’intervento delle forze di polizia a supporto dei servizi sociali. Si tratta di linee guida che Polizia di Stato e Consiglio nazionale degli assistenti sociali hanno già adottato per proprio conto, ma che è opportuno armonizzare e diffondere sul territorio. L’allontanamento dal nucleo familiare è un momento estremamente difficile e doloroso, che deve essere il più possibile evitato e che, quando si rende assolutamente necessario nel superiore interesse del minore, deve avvenire secondo modalità che siano rispettose della sua vulnerabilità e non ne turbino l’equilibrio psicofisico. Quello che oggi ci siamo impegnati a fare è adottare linee guida comuni che siano universali e sostenibili su scala nazionale: mettere a sistema prassi virtuose e indicazioni operative già esistenti e fare in modo che la cooperazione non sia l’eccezione ma la regola»[21].

 

  1. Le indicazioni del Consiglio d’Europa e della Commissione europea per una giustizia a misura di minore

 

La Commissione europea, in data 19 maggio 2022, ha pubblicato il quadro di valutazione UE sulla giustizia 2022, uno strumento che da dieci anni viene utilizzato per verificare il livello di efficienza dei sistemi giudiziari degli Stati membri dell’Unione Europea, utilizzato dalla Commissione per monitorare le riforme giudiziarie intraprese dagli Stati membri.

Per la prima volta il quadro di valutazione presenta dei grafici comparativi riguardanti anche la giustizia a misura di minore, con un’evidente manifestazione di interesse per il tema, in linea peraltro con gli interventi del Consiglio d’Europa e della Commissione europea che, in attuazione dei principi della Convenzione ONU del 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, sono finalizzati a garantire l’accesso effettivo dei minori alla giustizia, nonché il trattamento adeguato dei loro diritti in ambito giudiziario.

Una tutela, quella che deve essere garantita ai minori, che è strettamente legata alla tutela della famiglia, che la stessa Convenzione ONU, nel preambolo, indica quale «unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli», sottolineando altresì l’esigenza che la stessa riceva dallo Stato «la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività». I minori, invero, ai fini del sano, armonioso e completo sviluppo della loro personalità hanno bisogno di crescere ‒ come si legge ancora nel preambolo della Convenzione ONU ‒ «in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione». Questo significa che i nuclei familiari più fragili devono essere aiutati a superare le difficoltà, specie quelle che, in vario modo, rischiano di ostacolare o compromettere il rapporto genitoriale. Qualsiasi soluzione deve essere sempre adottata all’esito di una accurata valutazione del superiore interesse del singolo minore coinvolto e, anche nell’ipotesi in cui sia necessario allontanare il minore dal proprio nucleo familiare o da parte di esso, l’intervento deve al contempo prevedere strumenti volti al recupero del rapporto genitoriale[22].

Nel 2010 il Consiglio d’Europa, con l’esplicito intento di dare attuazione ai principi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ha elaborato le “Linee guida per una giustizia a misura di minore”, ove ha indicato i cinque principi fondamentali da osservarsi in ambito giudiziario per garantire ai minori coinvolti nei procedimenti la necessaria tutela di cui hanno diritto ed ha altresì individuato alcuni elementi essenziali, indicativi di una giustizia rispettosa delle esigenze di bambini ed adolescenti.

I cinque principi fondamentali possono essere così sintetizzati[23]: 1. Garanzia di partecipazione (i minori devono essere ascoltati e deve essere dato il giusto riconoscimento alle loro opinioni); 2. Centralità del superiore interesse del minore e conseguente necessità di un approccio globale che consenta di tutelare in maniera effettiva ed efficace il benessere psico-fisico di ciascun minore; 3. Rispetto della dignità (i minori devono essere trattati con rispetto, gentilezza e sensibilità); 4. Protezione dalla discriminazione (i diritti dei minori devono essere garantiti sempre, senza eccezioni); 5. Applicazione del principio dello Stato di diritto (anche ai minori devono essere garantite le tutele previste per il giusto processo).

Il Consiglio d’Europa ha poi individuato alcuni elementi necessari per poter effettivamente attuare una giustizia rispettosa dei minori. Fra questi vi sono: la formazione dei professionisti, l’approccio multidisciplinare e collaborativo, la corretta informazione del minore e dei suoi genitori circa la procedura e la durata ragionevole dei procedimenti. Con riferimento alla formazione, il Consiglio d’Europa ha osservato che «tutti i professionisti che operano con e per i minori dovrebbero ricevere la necessaria formazione interdisciplinare sui diritti e sui bisogni dei minori di diverse fasce di età» (cfr. p. 23), elemento che è strettamente correlato agli altri due, in quanto la collaborazione[24] fra i professionisti presuppone che tutti siano adeguatamente formati e pongano al centro della propria azione l’obiettivo di garantire la tutela ed il benessere psico-fisico del minore, mentre la corretta informazione presuppone che vi abbia la capacità di comunicare in maniera adeguata e rispettosa con i minori e con i suoi genitori.

Particolare importanza viene poi attribuita al fattore tempo, sottolineando che i procedimenti in materia di famiglia e minori esigono tempi rapidi di definizione. Per il Consiglio d’Europa, nei procedimenti che coinvolgono minori, «i giudici dovrebbero dimostrare una diligenza eccezionale al fine di evitare ogni rischio di conseguenze dannose sui rapporti familiari».

Il 22 febbraio 2022 il Consiglio d’Europa ha pubblicato la “Strategia per i diritti dei minori 2022-2027”. È interessante notare che sono rimaste ancora, in diversi Paesi, alcune delle criticità che erano già state riscontrate nel 2010, fra cui: una insufficiente attenzione per l’interesse del minore e le opinioni espresse dai bambini e dai ragazzi prima, durante e dopo i procedimenti giudiziari; una scarsa o inadeguata informazione fornita ai minori circa i procedimenti che li riguardano; tribunali carenti sotto l’aspetto organizzativo, sia con riferimento alla presenza di giudici specializzati in materia di famiglia e minori, sia con riferimento alla dotazione di spazi adeguati ad ospitare minori; una inadeguata formazione dei professionisti legali, soprattutto in merito alla capacità di ascoltare i minori. In considerazione delle inefficienze riscontrate, il Consiglio d’Europa, per realizzare «una giustizia adeguata ai bisogni di tutti i bambini», ha indicato alcune possibili azioni, che comprendono: la promozione di programmi di formazione per professionisti e giudici; l’utilizzo di un linguaggio adatto ai minori e la necessità di dare loto tutte le necessarie informazioni per poter partecipare effettivamente al procedimento e comprendere le motivazioni di determinati provvedimenti presi nel loro interesse; lo sviluppo di codici etici o strumenti equivalenti per i professionisti legali e per i media al fine di garantire il rispetto dei diritti dei minori coinvolti nei processi.

Vi è poi un’azione che è particolarmente significativa e che impone un’attenta riflessione. Il Consiglio d’Europa ha infatti messo in rilievo l’importanza che tutti i professionisti coinvolti – intendendo giudici, avvocati, consulenti tecnici, assistenti sociali, forze dell’ordine ‒ curino la propria comunicazione e siano gentili, rispettosi e comprensivi.

Si tratta di un’esigenza che era già stata riscontrata nell’ambito dello studio condotto dall’Agenzia Europea per i diritti fondamentali (FRA), i cui risultati sono stati raccolti nel documento “Giustizia a misura di minore: prospettive ed esperienze di minori e professionisti”, pubblicato nel 2017[25]. Lo studio, che ha riguardato 392 bambini ed adolescenti provenienti da dieci Paesi europei e coinvolti in procedimenti civili, ha rilevato l’esigenza dei minori di essere trattati con gentilezza e rispetto da tutti coloro che operano nell’ambito del processo (p. 2 ss.), nonché di essere ascoltati, di poter esprimere le proprie opinioni e di essere informati.

La “Strategia UE sui diritti dei minori 2021-2024”, la prima adottata in materia dalla Commissione europea e pubblicata il 24 marzo 2021, si articola in sei aree tematiche e la quarta è intitolata “Giustizia a misura di minore”. Nel delineare le priorità dell’Unione Europea in questa materia, la Commissione definisce anche le raccomandazioni cui gli Stati membri sono chiamati ad attenersi, ponendo quali obiettivi quelli già tracciati dal Consiglio d’Europa. Più precisamente, dopo aver rilevato che «talvolta i professionisti mancano della formazione necessaria per interagire con i minori in modo adeguato all’età di questi ultimi», la Commissione ha indicato l’esigenza di migliorare la formazione degli operatori della giustizia, richiamando anche quanto già previsto per i magistrati nella “Strategia europea di formazione giudiziaria 2021-2024”.

È stata inoltre ribadita l’importanza di garantire al minore il diritto di esprimere le proprie opinioni nei processi: «il diritto del minore di essere sentito» – ha osservato la Commissione ‒ «non è sempre rispettato». La Strategia UE insiste poi sulla necessità di evitare la reiterazione ingiustificata delle udienze e di avere sistemi giudiziari più rispettosi dei diritti e delle esigenze specifiche dei minori, nonché sull’opportunità di migliorare la raccolta dei dati relativi ai minori coinvolti in procedimenti giudiziari.

 

  1. Conclusioni

 

La Cassazione, con l’ordinanza n. 9691/2022 ha messo in evidenza diversi degli aspetti che sono stati oggetto di attenzione del Consiglio d’Europa e della Commissione europea nell’elaborazione delle Strategie di intervento per la realizzazione di una giustizia a misura di minore. La Suprema Corte, come si è già avuto modo di precisare, ha infatti richiamato l’importanza dell’ascolto del minore, della formazione dei professionisti, del rispetto per la dignità del minore nell’attuazione dei provvedimenti giudiziari. Anche l’aver ribadito che i provvedimenti riguardanti i minori non possono basarsi su teorie prive di fondamento scientifico si pone in linea, a ben vedere, con le indicazioni europee a tutela dei minori. L’ordinanza impone inoltre una riflessione sulla necessità che tutti gli operatori del settore collaborino con impegno per l’effettiva tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti coinvolti nei procedimenti giudiziari, valutando con attenzione e prudenza ogni aspetto delle diverse vicende, senza la possibilità di “etichettare” persone e situazioni in maniera semplicistica.

È utile ricordare che di recente il Consiglio Nazionale Forense ha pubblicato le “Raccomandazioni per gli avvocati curatori speciali di minori[26] sottolineando l’importanza che gli avvocati che assistono i minori come curatori speciali – ma questo a ben vedere vale per tutti gli avvocati che esercitano la professione in materia di famiglia e minori ‒ osservino il rispetto dei principi generali di cui all’art. 9 del Codice deontologico forense[27], nonché i principi di indipendenza, competenza, correttezza e lealtà, raccomandando in particolare la collaborazione con tutte le parti del processo e dando indicazioni su come procedere all’ascolto del minore.

Come osservato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nella premessa alle “Linee Guida per una giustizia a misura di minore” del 2010, «la giustizia dovrebbe essere amica dei minori. Non dovrebbe camminare davanti a loro, perché potrebbero non seguirla. Non dovrebbe camminare dietro di loro, perché i minori non dovrebbero avere la responsabilità di scegliere il cammino. La giustizia dovrebbe camminare al loro fianco ed essere loro amica».

 

[1] Cfr. R.A. Gardner, Recent Trends in Divorce and Custody Litigation, in The American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry’s Academy Forum magazine, 1985. Il primo contributo italiano in materia è stato pubblicato nel 1997: I. Buzzi, La sindrome di alienazione parentale, in V. Cigoli, G. Gulotta, G. Santi (a cura di), Separazione, divorzio ed affidamento dei figli, Milano, 1997, pp. 177-187.

[2] Per approfondimenti, fra i tanti, si veda G.A. Polizzi, Consulenze tecniche devianti dalla scienza medica: il caso della PAS, in Rivista italiana di medicina legale, n. 2, 2020, pp. 1300-1313; C. Cicero, M. Rinaldo, Principio di bigenitorialità, conflitto di coppia e sindrome di alienazione parentale, in Dir. fam. e pers., n. 3, 2013, pp. 871-886; C. Casale, Coniugi separati e litigiosi, la PAS e la Suprema Corte, in Dir. fam. e pers., n. 1, 2019, pp. 14-37; I. Grimaldi, La PAS all’interno del conflitto genitoriale. Incidenza, posizioni giurisprudenziali, conseguenze, in G. Cassano (a cura di), Il minore nel conflitto genitoriale, Milano, 2016, pp. 107-148; nello stesso volume da ultimo citato, cfr. anche: E. Peruzzini, L’affidamento condiviso nell’ottica della tutela del minore, pp. 39-106 e spec. pp. 70-73; L. Perulli, Ragioni a sostegno dell’esistenza scientifica dell’alienazione genitoriale quale distorsione relazionale tra genitore e figlio, pp. 149-188; A. Mazzeo, Ragioni negatorie dell’esistenza scientifica di una sindrome di alienazione parentale e strategie per il contrasto della perizia, pp. 189-231; E. Reale, Oltre la PAS: il percorso della vittimizzazione secondaria di donne e minori, pp. 232-274.

[3] È interessante quanto rilevato dal Tribunale di Milano, sez. IX, in un decreto del 13 ottobre 2014 (Pres. Est. Dott.ssa Servetti) laddove ha negato rilievo alla PAS, dichiarando inammissibile l’accertamento istruttorio relativo alla sussistenza della stessa. Ha affermato il Tribunale: «dichiarata sin da ora la inammissibilità di accertamenti istruttori in ordine alla cd. PAS, in quanto la cd. sindrome di alienazione genitoriale è priva di fondamento, sul piano scientifico (Cass. Civ., sez. I, sentenza 20 marzo 2013 n. 7041), così come si appura dallo sfoglio della letteratura scientifica di settore (da ultimo v. DSM-V), e il comportamento che sia “alienante” può dunque rilevare sotto altri e diversi profili ma non come “patologia” del minore (non comprendendosi, peraltro, perché se “litigano” i genitori, gli accertamenti diagnostici debbano essere condotti su chi il conflitto lo subisce e non su chi lo crea: v. Trib. Varese, 1 luglio 2010)».

[4] Si veda quanto osservato in V. Mazzotta, PAS: affidamento del minore all’Ente e raccomandazioni del Tribunale a sostegno della genitorialità, in Il Familiarista, 9 febbraio 2018: «l’espressione “alienazione genitoriale” è talora utilizzata a sproposito nel linguaggio inerente la patologia delle relazioni genitori – figli a seguito della separazione della coppia, ma sostanzialmente evoca la situazione di rifiuto e ostilità che un figlio mostra verso un genitore determinata consapevolmente dall’altro genitore e certamente pregiudizievole per la crescita del minore. Che si tratti di una sindrome o di una “malevole” disfunzione relazionale, è sostanzialmente irrilevante per il giurista, per il quale, ciò che conta, resta esclusivamente approntare un rimedio al pregiudizio che il figlio patisce dal condizionamento di un genitore che, con il proprio comportamento “alienante” reca un danno grave al minore, privato del rapporto con l’altra figura genitoriale».

[5] Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in diverse sentenze di condanna nei confronti dell’Italia per violazione in particolare dell’art. 8 e dell’art. 14 della CEDU, ha osservato come non debbano essere adottate misure stereotipate. Si vedano ad esempio le seguenti sentenze: R.B e M. contro Italia del 22 aprile 2021; Endrizzi contro Italia del 23 marzo 2017; Improta contro Italia del 4 maggio 2017; Strumia contro Italia del 23 giugno 2016; Lombardo contro Italia del 29 gennaio 2013.

[6] Come giustamente è stato osservato, «dal momento dell’importazione della PAS nel panorama giudiziario italiano si sono moltiplicati tanto gli esempi di applicazione della teoria suggerita dal dott. Gardner e dagli aderenti ad essa, quanto i tentativi da parte della Corte di Cassazione di sospingere fuori dalle aule giudiziarie la PAS o quantomeno di contenerne gli aspetti più preoccupanti e tendenti all’estromissione del minore dalle vicende processuali». Cfr. G.A. Polizzi, Consulenze tecniche devianti dalla scienza medica: il caso della PAS, in Rivista italiana di medicina legale, cit., p. 1308.

[7] Cfr. G. Cassano, P. Corder, I. Grimaldi (a cura di), L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie, Santarcangelo di Romagna, 2018; S. Vaccaro, C. Barea Payueta, PAS: presunta sindrome di alienazione parentale, Firenze, 2011.

[8] Ci si riferisce al bimbo di Cittadella, prelevato all’uscita di scuola dalle forze dell’ordine per essere portato presso una struttura protetta in seguito alla decisione del giudice di affidarlo al padre. Un caso sui cui si è molto discusso e che ha suscitato un vivace dibattito sugli affidi dei minori e le modalità di attuazione dei provvedimenti di allontanamento.

[9] Veniva altresì osservato che «la sindrome PAS non viene considerata come un disturbo mentale, ed è stata oggetto di attenzione prevalentemente in ambito forense, più che da parte della psichiatria e della psicologia clinica». Cfr. Camera dei Deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea – Seduta n. 706 di giovedì 18 ottobre 2012, Interventi relativi all’interpellanza urgente “Elementi in merito alla sindrome di alienazione genitoriale, con particolare riferimento al suo inserimento nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, in https://bit.ly/3O9wC7f.

[10] Per approfondimenti in merito, si veda M. Corriere, L’alienazione parentale nella giurisprudenza civile, in G.B. Camerini, M. Pingitore, G. Lopez (a cura di), Alienazione Parentale: innovazioni cliniche e giuridiche, Bologna, 2016, pp. 146-160. Fra i provvedimenti di merito, fra i tanti, si ricordano Trib. Brescia n. 815 del 22 marzo 2019; Trib. Castrovillari n. 728 del 27 luglio 2018; Trib. Treviso n. 284 del 7 febbraio 2017; Trib. Bergamo n. 3101 del 4 novembre 2016; Trib. Cosenza n. 778 del 29 luglio 2015.

[11] Giova osservare che in precedenti pronunce la Cassazione non ha preso una posizione netta contro la PAS. Si veda ad esempio Cass. n. 7452 del 14 maggio 2012, ove la Corte ha rigettato integralmente il ricorso presentato da una madre “ritenuta responsabile della sindrome di alienazione genitoriale da cui era affetta la figlia” dal Tribunale di Mantova (sentenza del 2007), con conseguente condanna ex art. 709 ter c.p.c. al risarcimento dei danni in favore della figlia e dell’ex marito, condanna in parte confermata in appello. La donna aveva quindi presentato ricorso in Cassazione, denunciando il vizio di motivazione della sentenza impugnata e lamentando che «la sindrome da alienazione parentale, allorchè sussiste, deriva da una situazione di grave conflittualità fra i genitori, onde le relative responsabilità vanno ascritte ad entrambi e non a uno solo di essi». La Corte, in quell’occasione, non ha preso posizione sulla citata PAS, limitandosi ad affermare che «le censure della ricorrente integrano pure e semplici critiche di merito, inammissibili in sede di legittimità». Va altresì ricordata la sentenza della Cassazione n. 5847 dell’8 marzo 2013, ove la Corte, nel rigettare il ricorso presentato da un padre avverso la sentenza di secondo grado che aveva confermato l’affidamento esclusivo dei figli alla madre sulla base di quanto emerso in sede di CTU, ha affermato: «la Corte d’Appello, utilizzando la predetta relazione della Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale dei figli ed evidenziava il danno irreparabile da essi subito per la privazione del rapporto con la madre, si è limitata a fare uso del potere, attribuito al giudice dall’art. 155 sexies c.c., comma 1, di assumere mezzi di prova anche d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre. Essa inoltre ha fondato la decisione anche su altri elementi non specificamente censurati dal ricorrente…».

[12] È interessante notare quanto osservato dalla Cassazione sulla mancata menzione della PAS da parte della corte territoriale, pur essendo evidente il riferimento alla stessa. Si legge nella sentenza: «Deve preliminarmente constatarsi come nella motivazione della sentenza impugnata la Corte territoriale, che pure cita testualmente numerosi brani della consulenza tecnica d’ufficio, alla quale, a un certo punto, opera un richiamo nella sua integralità (pag. 4), eviti, accuratamente ogni riferimento alla “sindrome da alienazione parentale” (d’ora in avanti, per brevità, PAS), che pure costituisce il sostrato teorico, utilizzato a fini diagnostici e terapeutici, dell’ elaborato peritale. Che si tratti di un mero lapsus memoriae o di un espediente dialettico per eludere la questione della validità scientifica della PAS e le critiche alla consulenza tecnica d’ufficio, questa Corte non è in grado di stabilire di certo, il tema della condizione patologica del minore, unicamente riferibile alla condotta della madre “alienante”, rappresenta l’ubi consistam non solo del citato elaborato, ma dell’intero giudizio di secondo grado».

[13] La Cassazione nella sentenza citata ha affermato: «Si deve enunciare il seguente principio: in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sè, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena».

[14] Per approfondimenti sul ruolo dei CTU nei processi in materia di famiglia e minori e sulla progressiva trasformazione della consulenza tecnica, si vedano M. Lagazzi, La consulenza tecnica in materia di affidamento del minore: dalla valutazione alla “clinica forense”, in A. Cagnazzo, F. Preite, V. Tagliaferri (a cura di), Il nuovo Diritto di famiglia, vol. I, Milano, 2015, p. 983 ss.; F. Danovi, Tutela del minore e tecnica processuale nella c.t.u. psicodiagnostica, in Fam. Dir., 2019, p. 819 ss.; M. Maglietta, A. Maniaci, C.T.U. nei procedimenti in materia di famiglia e minori. Esperienze, criticità dei quesiti peritali e proposte operative, Pisa, 2022.

[15] La Cassazione con l’ordinanza n. 31902 del 10 dicembre 2018 ha chiarito che la bigenitorialità deve essere intesa come diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi i genitori e al contempo come diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio, nel reciproco interesse. La bigenitorialità, ha precisato la Cassazione «non comporta l’applicazione matematica in termini di parità dei tempi di frequentazione del minore». Occorre infatti considerare di volta in volta le esigenze di vita del singolo minore e individuare la soluzione più adeguata al suo sano ed equilibrato sviluppo psicofisico.

[16] La bigenitorialità, da intendersi quale «presenza comune di entrambe le figure parentali nella vita del figlio e cooperazione delle stesse nell’adempimento dei doveri di assistenza, educazione ed istruzione» secondo la definizione formulata dalla Cassazione (cfr. Cass. civ., sent. n. 18817 del 23 settembre 2015) è un diritto che ha ricevuto l’esplicita copertura di diritto positivo con la Legge n. 54 del 2006, ma che era già presente nell’ordinamento italiano in virtù della ratifica – avvenuta con la legge n. 176/1991 ‒ della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, che all’art. 9 comma 3 stabilisce: «Gli Stati parti rispettano il diritto del fanciullo separato da entrambi i genitori o da uno di essi di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo».

[17] Giova osservare che il Legislatore, con il D.lgs n. 154/2013 recante la “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, è passato dall’uso del termine “audizione del minore” alla più corretta terminologia di “ascolto del minore”. La Cassazione, nella sentenza n. 6129 del 26 marzo 2015, ha affermato: «l’ascolto costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, costituendo tale peculiare forma di partecipazione del minore alle decisioni che lo investono uno degli strumenti di maggiore incisività al fine del conseguimento dell’interesse del medesimo». Per approfondimenti in merito, fra i tanti, si vedano: F. Danovi, Il processo di separazione e divorzio, in Trattato di diritto civile e commerciale. La crisi della famiglia, Milano, 2015; R. Donzelli, L’ascolto del minore come situazione processuale partecipativa attenuata, in A. Briguglio, R. Martino, A. Panzarola, B. Sassani (a cura di), Scritti in onore di Nicola Picardi, vol. II, Pisa, 2016, p. 961 ss.

[18] Cfr. Legge 26 novembre 2021, n. 206, art. 1 commi 23s, 23t, 23dd, 31b.

[19] Considerando le condanne per violazione dell’art. 8 della CEDU relativamente a procedimenti in materia di famiglia e minori, è possibile rilevare che nell’ultimo decennio l’Italia è stata più volte sanzionata per non aver tutelato efficacemente la relazione genitori-figli. I casi esaminati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno riguardato, nello specifico: l’inefficiente controllo circa l’esecuzione dei provvedimenti a tutela della bigenitorialità; l’eccessiva durata dei procedimenti o dei tempi di allontanamento dei minori dalla propria famiglia (compresi nonni e zii); la superficialità con cui sono state valutate le situazioni e l’adozione di provvedimenti stereotipati; l’eccessiva ed ingiustificata durata dei procedimenti; la scarsa attenzione per il recupero del rapporto genitori-figli in caso di sospensione o decadenza dalla responsabilità genitoriale; mancanza di diligenza nel vagliare alternative all’adozione. Nel 2022 risultano già tre procedimenti conclusi con la condanna dell’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU. Caso D.M. e N. contro Italia (20 gennaio 2022), avente ad oggetto la dichiarazione di adottabilità di una minore: la Corte ha ribadito che l’autorità giudiziaria prima di disporre l’adozione deve valutare con diligenza ed attenzione la concreta situazione del minore e della sua famiglia, evitando ingiustificate ingerenze nella vita familiare e che i nuclei in difficoltà devono essere sostenuti; Caso Fiagbe contro Italia (28 aprile 2022), avente ad oggetto il collocamento di un minore presso una famiglia affidataria: la Corte ha riscontrato una grave inerzia dei Servizi Sociali ed ha affermato che lo Stato deve adottare tutte le misure idonee a salvaguardare il legame genitori-figli, precisando che i Servizi Sociali devono attivarsi tempestivamente e in maniera diligente; Caso Imeri contro Italia (28 aprile 2022), avente ad oggetto il diritto di visita del genitore non collocatario e il diritto alla bigenitorialità: la Corte ha osservato che lo Stato deve adottare misure idonee e rapide per garantire al minore il diritto alla bigenitorialità e che a tal fine i giudici sono altresì chiamati a monitorare l’attività dei Servizi Sociali.

[20] Il protocollo è stato pubblicato e può essere consultato al seguente link: https://bit.ly/3bj1yn6.

[21] La dichiarazione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza è reperibile al seguente link: https://bit.ly/3ngVz4N.

[22] Con riferimento ai procedimenti civili in materia di famiglia e minori ‒ ossia quelli riguardanti ad esempio le separazioni coniugali, le regolamentazioni dei rapporti genitoriali per i figli di coppie non sposate, i procedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale ‒ rilevano i seguenti articoli della Convenzione ONU: l’art. 3 comma 1, secondo cui «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; l’art. 9 comma 1, che impone agli Stati di vigilare «affinché il fanciullo non sia separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo», prevedendo al comma successivo che tutte le parti coinvolte possano partecipare alle deliberazioni e far conoscere le proprie opinioni; l’art. 12, che al comma 1 stabilisce il diritto del minore di esprimere le proprie opinioni nelle questioni che lo riguardano e al comma 2 precisa che «a tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale»; l’art. 18, che al fine di garantire il corretto esercizio della responsabilità genitoriale al comma 2 impone agli Stati di accordare «gli aiuti appropriati ai genitori e ai tutori legali nell’esercizio della responsabilità che incombe loro di allevare il fanciullo e provvedono alla creazione di istituzioni, istituti e servizi incaricati di vigilare sul benessere del fanciullo»; l’art. 20 che, con riferimento ai minori che devono essere allontanati dalla propria famiglia, prevede l’obbligo dello Stato di garantire al minore «protezione e aiuti speciali», nonché continuità nell’educazione; l’art. 21 impone agli Stati una particolare cautela nel dichiarare lo stato di adottabilità del minore, ribadendo la necessità che ogni valutazione sia fatta tenendo conto del superiore interesse del minore.

[23] Cfr. Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, 17 novembre 2010, p. 17 ss.

[24] Sul punto, si legge a p. 23 delle Linee guida: «dovrebbe essere incoraggiata una stretta collaborazione tra i diversi professionisti al fine di pervenire a un’approfondita comprensione del minore e a una valutazione della sua situazione legale, psicologica, sociale, emotiva, fisica e cognitiva».

[25] Il testo è disponibile al seguente link: https://bit.ly/3xRypa8. I Paesi coinvolti nella ricerca sono stati: Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Polonia, Regno Unito, Romania e Spagna. L’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, nel corso della ricerca, ha riscontrato una scarsa considerazione del concreto interesse dei minori e la presenza di professionisti sprovvisti di una formazione adeguata a lavorare con i minori (che nella pratica si traduce spesso, ha osservato l’Agenzia, in episodi di negligenza, con possibile pregiudizio per la salute psico-fisica dei minori). L’Agenzia, ha dato delle indicazioni utili per superare le criticità riscontrate, fra cui: prevedere degli spazi idonei all’ascolto dei minori; osservare che la durata dei procedimenti e delle udienze sia rispettosa dei diritti dei minori; informare in maniera adeguata i minori in merito ai procedimenti in cui sono coinvolti; stabilire il significato di “interesse superiore del minore”; formare i professionisti; favorire un approccio multidisciplinare e la cooperazione di tutti gli operatori coinvolti (giudici, avvocati, consulenti tecnici, assistenti sociali); destinare maggiori investimenti al settore giustizia (risorse umane ed economiche).

[26] Il testo è stato pubblicato nel mese di giugno 2022, su proposta della commissione diritto di famiglia e con il contributo delle associazioni specialistiche di riferimento, ed è reperibile al seguente link: https://bit.ly/3OGJv98.

[27] Ai sensi dell’art. 9 del Codice deontologico forense, «1. L’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza. 2. L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense».