Mauro Ronco
Avvocato in Torino e Professore Emerito di Diritto Penale
Università degli Studi di Padova

Sommario: 1. Introduzione ‒ 2. Gli studi in materia di liberalizzazione degli stupefacenti ‒ 3. Gli effetti della diffusione delle droghe ‒ 4. La deriva drogastica ‒ 5. La diffusione degli stupefacenti mette in pericolo la sicurezza pubblica.

 

 

  1. Introduzione

 

Come per il criminalista Raul Zaffaroni il crimine non esiste nella realtà, bensì è creato dalla legge[1]; così per Szasz la droga e i suoi effetti di alterazione della coscienza non esistono nella realtà, ma sono creati dalla legge e da coloro che odiano i liberi e innocenti consumatori di sostanze innocue per la società[2]. Contro i legislatori e i politici proibizionisti dovrebbe essere creato un crimine di odio, un hatecrime: perché coloro che odiano la libertà del singolo meritano una punizione per il crimine di odio contro i tossicodipendenti. Szasz è tassativo nelle sue conclusioni. Mentre l’opinione pubblica comune ritiene che la salute della società e degli individui sia messa in pericolo dall’uso degli stupefacenti, sarebbe vero il contrario: «la sicurezza dei cittadini è messa in pericolo da quei legislatori e uomini politici che, proibendo la vendita e il consumo dell’eroina, provocano i crimini connessi al mercato illegale che ne consegue»[3]. Mentre le persone che lavorano e che si preoccupano della salute dei figli dichiarano che gli spacciatori sono degli ‘assassini’; che la tossicomania è una forma di genocidio, per Szasz invece: «gli spacciatori non fanno alcun male» e la tossicomania è «una espressione della libertà personale»[4].

La pretesa legislativa di contenere la diffusione delle sostanze psicoattive tramite la medicina e il diritto partirebbe dalla falsa idea che si possa definire cosa siano la sanità mentale e fisica. I legislatori, i giudici e le persone comuni che considerano la droga pericolosa per la salute individuale e per l’ordinata vita civile sono colpevoli dell’accrescimento delle condotte criminali. Vittime dell’oppressione statale sono invece coloro che mettono in pericolo la propria salute, alimentano sub-culture criminali e sfuggono ai doveri di solidarietà sociale.

Questi paradossi controintuitivi e irrealistici non sono stati contrastati da molte persone degli strati alti della società e gli effetti del permissivismo si sono rovesciati sui deboli e sui poveri.

 

  1. Gli studi in materia di liberalizzazione degli stupefacenti

 

Nel 1989 pubblicai un libro sul controllo penale degli stupefacenti[5]. Feci perciò una ricerca approfondita della letteratura alta nella materia e constatai che, a parte i testi di commento alle leggi, che si limitavano all’esposizione pratica della disciplina, la gran parte degli studiosi impegnati si avvicinavano molto alle tesi di Szasz. Anche se non le sposavano appieno, se ne mostravano affascinati e proponevano riforme nel senso della liberalizzazione delle droghe, almeno di quelle c.d. leggere.

Addirittura Giuseppe Branca, Presidente della Corte Costituzionale dal 1969 al 1971, scrisse una Prefazione all’opera di Guido Blumir, sommo profeta delle droghe in area culturale italiana, intitolata “Con la scusa della droga”, in cui aderiva all’opinione di Blumir, scrivendo «per il sistema sono più pericolosi i consumatori (rivoluzionari, irrequieti, ecc.) che i venditori di droga, non è questa in sé, ma la speciale ‘devianza’ che ne deriva a preoccupare i detentori del potere»[6].

Branca si mostrava così un sostenitore dell’ideologia del sospetto: chi fa il bene, o propone scelte orientate al bene (per esempio: non usate le droghe, perché fanno male alla salute), fa ciò non per le ragioni buone che dichiara, ma per stroncare l’innovatività rivoluzionaria di coloro che in modo innocente le consumano in un’aspirazione di libertà.

L’opinione della dottrina maggioritaria – di quella almeno che occupava gli spazi più importanti dell’Accademia e dei mezzi di comunicazione scientifica – era favorevole alla depenalizzazione delle droghe leggere. Lo scriveva sul Novissimo Digesto Italiano nel 1979 Luigi Stortoni: «La stessa sottoposizione a controllo di sostanze che non inducano effetti di intossicazione e di crisi di astinenza appare dovuta più a considerazioni moralistiche che a ragioni di tutela della salute, la quale non è da essa compromessa: così da auspicare almeno la depenalizzazione dell’uso di tali sostanze»[7]. Anche un Autore solitamente moderato come Giovanni Maria Flick non si sottraeva al richiamo antimoralistico di Stortoni: dichiarava perciò in una monografia del 1979 che occorreva evitare di spendere motivazioni etiche per legittimare una politica repressiva dell’uso delle droghe. E ciò perché – diceva Flick – l’ordine morale non costituisce un valore esplicitamente delineato dalla Costituzione[8].

Su questi presupposti si comprende perché giuristi come Adelmo Manna e Filippo Sgubbi, scrivendo nel 1991 un libro sotto la cura di Franco Bricola sulla riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti del 1990 (d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309), si sarebbero pronunciati, in critica alla riforma, a favore di una politica criminale alternativa, di «graduale legalizzazione delle c.d. droghe leggere»[9] e, sul lungo periodo, di «riesame in vista della eventuale legalizzazione delle c.d. droghe pesanti»[10].

La legge, che pure introduceva nell’ordinamento un ampio sistema diretto alla riabilitazione dei tossicodipendenti, sottraendoli al rischio del carcere, sarebbe stata sospetta di incostituzionalità, perché contraria al principio di offensività, avendo riesumato la «vecchia categoria dell’ordine pubblico di polizia, quale vaghissimo concetto di sintesi delle condizioni essenziali di ordine e tranquillità di vita»[11].

 

  1. Gli effetti della diffusione delle droghe

 

Le parole di Sgubbi rendono noto con chiarezza in che misura la dottrina accademica dell’epoca fosse ostile al valore che l’ordine e la sicurezza pubblica hanno per la vita pacifica dei cittadini e per la tranquillità della società. Lo scopo del diritto, invero, e del diritto penale in specie, è garantire la supremazia della legge naturale e giuridica, affinché il bene comune sia garantito a beneficio dell’intera società: è il bene «di cui hanno diritto di beneficiare tutti i membri di una società»[12].

La diffusione delle droghe costituisce uno dei fattori principali che deprimono l’habitus della sicurezza pubblica, che la disgregano intimamente, che alimentano le discordie e le risse, che pongono al vertice degli interessi la sopraffazione dei più violenti sulle persone fragili e vulnerabili.

I discorsi antiproibizionisti dei giuristi sono di conio ideologico, perché completamente distaccati dalla verità delle cose.

Se le droghe costituiscono un problema grave per centinaia di migliaia di persone – anzitutto per coloro che diventano tossicodipendenti – che vengono minati nella salute, perdono spesso la capacità lavorativa, sprecano le risorse migliori per la loro realizzazione personale, divengono dipendenti per la sopravvivenza o dalle contribuzioni dei familiari o, peggio e più frequentemente, dal ruolo di venditori a loro volta a terzi della droga, ebbene se ciò è vero – e non può essere messo in dubbio – uno scienziato del diritto è gravemente imprudente quando sostiene che le droghe [leggere] sono innocue e la loro pericolosità dipende dal fatto che la loro circolazione è vietata.

D’altra parte, la distinzione tra droghe c.d. leggere e pesanti è priva di valore dal punto di vista criminologico. Oltre al fatto ben risaputo che le droghe di minor effetto psicotropo costituiscono il ponte verso le droghe più dannose, va rilevato che le stesse droghe estratte dalle piante di canapa si sono evolute verso forme maggiormente pericolose per la salute.

Inoltre, l’evoluzione degli ultimi decenni ha mostrato come sia avvenuto un sostanziale mutamento nelle prassi che caratterizzano le varie fasi del ciclo della droga. I consumatori abituali, spesso in una strategia di “riduzione del danno”, invece di abbandonare l’uso delle sostanze tossiche, tendono a cambiarle continuamente, sostituendo quelle meno nocive a quelle più pesanti, perpetuando in questo modo lo stato di tossicodipendenza.

Infine, la tipologia delle droghe si è molto implementata, tra sostanze naturali e sostanze sintetiche, tra elaborazioni tecnologiche di farmaci in funzione stupefacente e continui aggiornamenti da parte delle organizzazioni criminali, sì che l’antica distinzione tra droga leggera e droga pesante è divenuta un ferro vecchio, assolutamente inadeguato a distinguere vari tipi di sostanze.

 

  1. La deriva drogastica

 

Al di là, dunque, di droghe leggere e droghe pesanti, occorre domandarsi per quali motivi ancora oggi le stesse tesi antiproibizioniste siano riproposte con enfasi, con richieste di referendum abrogativi e con disegni di legge; nonché per quali motivi, invece, ancora oggi, gli uomini e le donne che hanno a cuore il futuro della nostra società e il destino dei giovani debbano contrastare la deriva drogastica.

Essa ormai è penetrata nel costume e nella vita delle persone più diverse, soprattutto delle nuove generazioni. La cultura ufficiale tende a mettere in disparte il problema: minima non curat praetor! Di tanto in tanto sui giornali appaiono notizie orribili: stupratori seriali che approfittano delle droghe per compiere violenze; incidenti stradali alle prime luci dell’alba che troncano la vita di interi gruppi di giovani; omicidi che trovano spiegazione nella disinibizione provocata dall’uso delle droghe!

Si è cercato con sforzi economici non modesti di creare un sistema medicale per la cura e la riabilitazione delle tossicodipendenze. Gruppi privati si sono impegnati con generosità, per il tempo dedicato, per il denaro speso, per i rischi corsi, anche di carattere penale, al fine di curare e riabilitare le persone cadute nell’addiction drogastica.

Di fronte a tanta generosità viene quasi difficile a un giurista parlare di questo tema. A che pro parlarne? Il diritto non può risolvere il problema.

É perfettamente vero; ma il giurista deve pronunciare parole di verità per mantenere in vita e per diffondere, contro il vociare di tutti coloro che, organizzati in file potenti, vogliono una libertà senza responsabilità, le ragioni della salute delle giovani generazioni e le ragioni dell’ordine sociale e giuridico.

Occorre agere contra l’idea, che si è impadronita anche della più aggiornata dottrina giuridica, che l’ordine morale non costituisce un valore tutelato dalla Costituzione. È  vero il contrario: l’art. 2 riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, ma richiede al contempo l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica e economica e sociale; l’art. 3 tutela la pari dignità sociale di ogni persona davanti alla legge e impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana; l’art. 4 riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto, ma proclama che ciascuno ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Non parliamo poi del Titolo II e del Titolo III della Costituzione, che tutelano i rapporti etico-sociali e i rapporti economici in un quadro in cui l’eticità conferisce le coordinate essenziali della disciplina giuridica.

Non è forse la solidarietà il principio che dà sostanza etica all’intero quadro costituzionale?

Riappropriandoci di questa idea forte che impregna la Costituzione, la correlazione reciproca tra l’uomo e la società nei loro rispettivi diritti e doveri, occorre ribadire con convinzione ciò che deve ridiventare normale nella concretezza storica della vita sociale. I singoli hanno dei doveri nei confronti della società, come quest’ultima ha dei doveri verso ciascuno di loro. Strappare da se stessi con un atto di libertà, vuoto di contenuto, per fini meramente ludici, la struttura portante degli atti che attuano concretamente le varie forme di collaborazione con gli altri uomini, consegnandosi al rischio all’autodissoluzione, significa sottrarsi in modo radicale e tendenzialmente irrimediabile ai più fondamentali doveri di solidarietà che derivano dall’intima natura sociale e giuridica della persona, dall’essenza della vita in comune e, da ultimo, dal profilo costituzionale concernente la realizzazione delle potenzialità della persona nella dimensione della solidarietà secondo il richiamo normativo dell’art. 2 della Carta fondamentale.

 

  1. La diffusione degli stupefacenti mette in pericolo la sicurezza pubblica

 

L’abitudine drogastica e, poi, la vera e propria addiction alla droga, esprime il rifiuto del soggetto al riconoscersi nel contratto sociale significativo[13], indebolendo la sicurezza pubblica e incrementando il compimento di attività criminali dei generi più diversi.

Il concetto di sicurezza, schernito da molti giuristi come simbolico, va rimesso in onore.

La sicurezza pubblica dà origine a tre ordini di esperienze essenziali per la pace sociale: l’esperienza di un ordine a cui è inerente un potere che gli fornisce stabilità; l’esperienza dei valori comunitari della solidarietà, della comunione e della condivisione; l’esperienza dei valori della pace e della concordia tra i cittadini, alla cui base sta il rispetto della dignità reciproca e dell’uguaglianza essenziale tra le persone.

I contegni drogastici generalizzati, soprattutto in ambienti giovanili, lacerano in modo devastante i valori complessi che si possono concettualmente ricondurre alla sicurezza pubblica. Essi sono fòmite di comportamenti devianti: gli effetti diretti sono il danno alla salute degli assuntori abituali; gli effetti indiretti sono la formazione di un humus sociale sempre più disgregato, da cui riesce facile alle organizzazioni criminali estrarre soggetti disponibili al traffico in grande quantità e alla commissione di delitti violenti per controllare e gestire i traffici illeciti.

Le sfere di libertà degli individui tra loro e di ciascuno con la società vanno regolati con razionalità.

Prive di razionalità sono le tesi liberistiche assolute che si sono affermate in Occidente al seguito dell’ondata individualista ed edonista che imperversa a partire dagli ultimi decenni del secolo XX.

Milton Friedman, maggiore rappresentante delle dottrine ultraliberiste della scuola di Chicago, concedeva, in un confronto con William Bennett, Alto Commissario contro il narcotraffico negli Stati Uniti, che la droga sia «una piaga che sta devastando la nostra società»[14]; che essa «stia facendo a pezzi il nostro sistema, rovinando le vite di molti giovani e imponendo costi a coloro che sono i meno fortunati tra noi»[15].

Nonostante ciò riteneva che il mantenimento di un’attitudine legislativa intesa a far valere l’illegalità della circolazione e del consumo delle droghe porti a «minacciare anche la libertà individuale»[16], sì da sentirsi indotto a rovesciare la prospettiva, asserendo che, se «la droga è una tragedia per chi ne fa uso»[17], «criminalizzare il suo consumo rende questa tragedia un disastro per l’intera società»[18].

Bennett contestava al suo interlocutore il nichilismo di fondo che ne ispira il pensiero, come se la soluzione del problema della droga fosse «l’assenza di qualunque soluzione»[19]. Il pretesto per non contrastare la droga sarebbe il suo eccessivo costo. Eliminate le leggi, il crimine dovrebbe scomparire e, azzerato il profitto del mercato clandestino tramite la legalizzazione e la distribuzione libera delle droghe, «le persone per bene»[20] non sarebbero più infastidite dagli spacciatori.

Con tali asserti antiproibizionistici non ci si rende conto del fatto che i costi sociali della legalizzazione della droga in termini di salute collettiva sarebbero «così grandi da significare un disastro nazionale»[21]. Bennett sottolineava ancora che il prezzo pagato per il consumo della droga dalla società americana, misurato in produttività perduta, in crescenti costi sanitari, in ricoveri di emergenza per overdose, in incidenti causati per intossicazione e in morti premature, costituiva un costo maggiore di quello che la società potesse permettersi di sopportare.

Ciò va ribadito con energia anche oggi.

A fronte del costo necessario per contrastare giuridicamente la diffusione della droga sta un costo sociale immenso recato dall’uso stesso degli stupefacenti, valutabile tanto in termini di danno immediato e diretto alle persone, quanto indiretto per le risorse che la società deve devolvere per la cura e la riabilitazione di tossicodipendenti, quanto ancora in termini di danno indiretto, non soltanto attuale, ma proiettato nel futuro, in relazione al disperdersi e all’estraniarsi dal patto sociale significativo di non trascurabili energie personali.

Ecco perché la battaglia contro le legalizzazioni per legge merita ancora oggi di essere combattuta.

[1] R. Zaffaroni, Manual de Derecho Penal. Parte General, Buenos Aires, 2007, cap. I, passim, che sfocia nel cap. II in una definizione nichilistica di pena nel senso che essa è «(a) una coerción, (b) que impone una privación de derechos o un dolor, (c) que no repara ni restituye y (d) ni tampoco detiene las lesiones en curso ni neutraliza los peligros imminentes» (cap. II, p. 56).

[2] T.S. Szasz, Ceremonial Chemistry. The ritual persecution of drugs, addicts and pushers, London, 1974, tr. it. Il mito della droga. La persecuzione rituale delle droghe, dei drogati e degli spacciatori, 2° ed. it., Milano, 1980.

[3] Ibidem, p. 29.

[4] Ibidem, p. 30.

[5] M. Ronco, Il controllo penale degli stupefacenti. Verso la riforma della L. n. 685/75, Napoli, 1990.

[6] G. Branca, Prefazione, in G. Blumir, Con la scusa della droga. Cosa ne pensa la gente. Come la usa il potere, Rimini, 1973.

[7] L. Stortoni, Stupefacenti – diritto penale, in Novissimo Dig. It., XVIII, Torino, 1973, p. 579.

[8] G.M. Flick, Droga e legge penale. Miti e realtà di una repressione, Milano, 1979, p. 140.

[9] A. Manna, Legislazione «simbolica» e diritto penale: a proposito della recente riforma legislativa, in F. Bricola, G. Insolera (a cura di), La riforma della legislazione penale in materia di stupefacenti, Padova 1991, p. 52.

[10] Ibidem, p. 53.

[11] F. Sgubbi, Il bene giuridico e la legge di riforma in materia di stupefacenti, in La riforma della legislazione penale, cit., p. 69.

[12] A. Millàn-Puellas, Sobre el hombre y la sociedad, Madrid, 1976, p. 107.

[13] L’espressione è di M. Beluffi, Antropologia sociale dei comportamenti drogastici, in Droga e società italiana. Indagine del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e dell’Amministrazione provinciale di Milano, Milano, 1974, p. 556 ss.

[14] Contro la droga, quale libertà? – Usa: a confronto il Premio Nobel Friedman e l’Alto commissario contro il narcotraffico, Bennett, in La Stampa, 21 settembre 1989.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Ibidem.